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Le 3 priorità fondamentali per la trasformazione sostenibile del settore chimico

key topics for the sustainable chemical industry

Scoprite i 3 pilastri fondamentali per costruire la chimica sostenibile.

I prodotti chimici sono parte integrante di ogni settore, dai beni di consumo e cosmetici ai prodotti farmaceutici e alla manifattura. Con un’influenza così ampia, il settore chimico ha un immenso potenziale per aiutare ad allineare i sistemi economici ai confini planetari.

A fronte delle sfide ambientali, del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e dell’esaurimento delle risorse, diventa chiave per l’industria chimica scegliere la trasformazione di sostenibilità.

Ecco le tre priorità per la sostenibilità del settore chimico suggerite dai nostri esperti>>

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1. Trasformazione del portafoglio prodotti

Una priorità fondamentale per il settore chimico è trasformare il proprio portafoglio prodotti per ridurre la dipendenza da quanto abbia origine fossile e adottare alternative rinnovabili e di origine biologica.  

In concreto: 

  • Materie prime rinnovabili: Passaggio dai combustibili fossili a risorse rinnovabili come biomasse, alghe e rifiuti agricoli, implementato per un’adozione diffusa. 
  • Prodotti sostenibili: Aumento della quota di prodotti chimici di origine biologica, biodegradabili e a basse emissioni di carbonio, evitando quanto dannosi per la salute umana e l’ambiente. 
  • Chimica sostenibile: Adozione di un approccio che riduca al minimo le sostanze pericolose e promuova processi di riduzione degli sprechi. Esplorazione accurata di innovazioni quali i biocatalizzatori, che generano meno rifiuti e richiedono meno energia rispetto ai catalizzatori tradizionali. 
  • Circolarità: Un approccio circolare promuove il riutilizzo e il riciclo dei materiali, e l’eco-design di prodotti che possono essere facilmente riciclati o rifabbricati. 

2. Circolarità 

La circolarità è la nuova frontiera per la trasformazione sostenibile dell’industria chimica, che presuppone un allontanamento dal tradizionale modello lineare di produzione (produce, use, dispose) per muovere verso la prospettiva in cui prodotti e materiali vengono riutilizzati, rifabbricati o riciclati alla fine del loro ciclo di vita. La circolarità nel settore chimico comporta: 

  • Tecniche innovative per il riciclo: il riciclo chimico, che scompone la plastica nei suoi componenti chimici per il riutilizzo, sembra offrire una soluzione promettente al problema dei rifiuti di plastica, soprattutto nei casi in cui il riciclo meccanico tradizionale degrada la qualità del materiale. 
  • Pensiero sistemico: per affrontare problemi complessi come l’inquinamento da plastica, le aziende chimiche devono adottare un approccio a livello di sistema, valutando l’intero ciclo di vita e gli impatti delle potenziali soluzioni. 
  • Soluzioni convenienti e scalabili: La circolarità spesso comporta costi iniziali elevati, ma i benefici a lungo termine per l’ambiente e per le aziende pioniere di queste tecnologie saranno significativi. La circolarità deve diventare una mentalità che richiede la collaborazione lungo tutta la catena del valore per renderla vincente e non un progetto pilota isolato.

3. Natura e Decarbonizzazione

L’industria chimica contribuisce in modo significativo alle emissioni globali di CO2 e al degrado degli ecosistemi. Molte aziende chimiche stanno già puntando alla riduzione delle emissioni attraverso l’uso di energia rinnovabile, la sfida però va oltre il carbonio. Le Nature based solution offrono un framework più ampio per la protezione della biodiversità, dell’acqua e del suolo, evitando le insidie ​​della “carbon tunnel vision: 

  • Decarbonizzazione: le aziende devono accelerare la transizione dei loro impianti per fare ricorso a energia rinnovabile e per trasformare la CO2 in materia prima per la produzione chimica. 
  • Protezione di biodiversità ed ecosistemi: Nuove sostanze chimiche, sia artificiali che naturali, hanno spesso impatti dannosi e duraturi sugli ecosistemi. Il settore deve considerare i confini planetari, lavorando all’interno di framework come Science Based Targets for Nature (SBTN) per proteggere acqua, suolo e biodiversità. Questo diventa particolarmente importante nel momento in cui il settore accelera l’adozione di materie prime di origine biologica.
  • Obiettivi olistici di sostenibilità: il settore chimico deve guardare oltre la riduzione delle emissioni, adottando un approccio di sostenibilità in grado di affrontare cal contempo molteplici sfide ambientali, dalla salute del suolo alla conservazione dell’acqua. Le aziende con strategie climatiche in atto dovrebbero rivederle attraverso la lente della natura, per garantirsi che gli impatti non vengano spostati altrove, con burden shifting negativi ad esempio su acqua o biodiversità. 

Il percorso verso un futuro sostenibile per il settore chimico richiede un’azione audace e decisa e una visione a lungo termine. Cambiando i portafogli prodotti, adottando principi di circolarità e abbracciando un approccio olistico alla decarbonizzazione e alla salvaguardia della natura, l’industria chimica può diventare una forza trainante per la sostenibilità. Queste priorità non solo garantiranno la compliance normativa e operation a prova di futuro, ma aprono anche, nell’immediato, opportunità di innovazione, risparmio sui costi e vantaggio competitivo. Guidare questa trasformazione oggi posizionerà le aziende chimiche per il domani. 

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Riduzioni nell’ambito dello Scope 3: il ruolo dei brand nel rendere carbon neutral la catena del valore

È necessaria una collaborazione più intensa tra i brand e i rispettivi fornitori per promuovere una strategia di decarbonizzazione integrata nella filiera produttiva.

In sintesi:

  • In un contesto in cui le iniziative di decarbonizzazione della catena del valore sono ancora in fase iniziale, le aziende potrebbero trovarsi in una situazione in cui la richiesta di prodotti a basso impatto ambientale supera l’offerta, rendendo impossibile il conseguimento dei propri obiettivi di riduzione nell’ambito dello Scope 3. Chi tarda a coinvolgere i propri fornitori rischia di non raggiungere i risultati prefissi e di restare indietro rispetto alla concorrenza.
  • Le opportunità strategiche di co-sviluppo e co-investimento tra brand e fornitori possono generare un valore considerevole e diminuire gli impatti negativi, portando così benefici reciproci e favorendo la decarbonizzazione della catena del valore.
  • L’utilizzo di sistemi di tracciabilità, che permettono alle aziende e ai loro fornitori di quantificare, monitorare e creare vantaggi reciproci, è fondamentale per un’implementazione efficace. L’attivazione di questi principi agevolerà una rendicontazione accurata e una maggiore trasparenza delle emissioni Scope 3, supportando al contempo la scalabilità e l’efficienza degli sforzi di decarbonizzazione.
  • L’attenzione dovrebbe focalizzarsi sull’istituzione di partnership a lungo termine che comprendano indicatori chiave di prestazione (KPI) allineati e che operino congiuntamente verso obiettivi di responsabilità ambientale condivisi.

Le aziende sono pienamente consapevoli dell’importanza di ridurre la loro impronta di carbonio. Generalmente, una parte rilevante del problema deriva in modo indiretto dall’impronta dei fornitori. Queste emissioni indirette, note come emissioni Scope 3 o emissioni della supply chain, rendono molto più complesso il raggiungimento degli obiettivi e dei requisiti ambientali, poiché non sono sotto il controllo diretto delle aziende.

Per affrontare tale questione, i brand devono coinvolgere proattivamente i loro fornitori per elaborare un piano d’azione volto a ridurre efficacemente le emissioni Scope 3 in un modo che incentivi entrambe le parti. Sviluppare insieme ai fornitori pratiche eco-compatibili e investire in soluzioni innovative può generare vantaggi reciproci e creare un valore significativo e duraturo.

Fortunatamente, nonostante l’idea diffusa che i fornitori siano in ritardo, molti di essi sono in realtà piuttosto evoluti nelle loro pratiche di sostenibilità. Sono consapevoli che il cambiamento è imminente e alcuni si stanno già impegnando attivamente a ridurre le emissioni. Tuttavia, il grado di maturità di queste pratiche può variare notevolmente, a seconda del settore e dell’area geografica.

Attraverso strategie di co-sviluppo o di co-investimento, le aziende possono stabilire solidi quadri di collaborazione, garantendo una rendicontazione accurata e trasparente delle emissioni Scope 3, a beneficio di entrambe le parti.

Cosa sono le emissioni Scope 3 e perché sono rilevanti?

In termini semplici, le emissioni di gas serra (GHG) generate dalle attività di un’azienda si suddividono in tre categorie:

  • Le emissioni Scope 1, conosciute anche come emissioni dirette, sono generate da beni di proprietà o gestiti direttamente da un’azienda.
  • Le emissioni Scope 2 sono emissioni indirette di gas serra generate attraverso l’acquisto di elettricità e di fonti energetiche prodotte esternamente al sito produttivo.
  • Le emissioni Scope 3, denominate anche emissioni della supply chain o della catena del valore, sono emissioni indirette che derivano da tutte le altre attività della supply chain, fino agli acquisti dei consumatori.

Dato che le emissioni Scope 3 sfuggono quasi completamente al controllo diretto dell’azienda, assicurare la conformità può essere estremamente impegnativo.

Eppure si tratta di un fattore cruciale, soprattutto perché le emissioni prodotte attraverso la supply chain sono, in media, 26 volte superiori alle emissioni operative.

Senza un adeguato impegno per la riduzione delle emissioni Scope 3 nella supply chain, le aziende potrebbero trovarsi in una situazione in cui la domanda di prodotti a basso impatto ambientale superi quella che i loro fornitori possono soddisfare, rendendo impossibile il raggiungimento degli obiettivi di riduzione.

I fornitori potrebbero anche trovarsi in una situazione di rischio finanziario. Secondo il progetto 2020 Carbon Disclosure Project (CDP), l’impatto monetario dei rischi ambientali sui fornitori dovrebbe raggiungere 1,26 bilioni di dollari nei prossimi cinque anni. Non sorprende che molti di questi rischi comportino un aumento dei costi. Se questi costi dovessero essere trasferiti, gli acquirenti aziendali potrebbero subire aumenti fino a 120 miliardi di dollari.

Con migliaia di beni, servizi e materie prime di cui gestire la trasformazione, può essere complesso monitorare le emissioni Scope 3. Per questo la collaborazione con i fornitori riveste un ruolo essenziale. Identificando le opportunità di sviluppo congiunto e allineando le relazioni verso obiettivi di responsabilità ambientale condivisi, i brand e i fornitori possono ottenere vantaggi reciproci nell’ambito del piano di decarbonizzazione della catena del valore.

I 3 pilastri dell’impegno ecologico dei fornitori

QUANTIFICARE: guidare e misurare la riduzione dell’impatto a livello di fornitori per le emissioni Scope 3

Il primo passo per lo sviluppo di una strategia integrata di decarbonizzazione della catena del valore consiste nel garantire l’allineamento strategico e nello sperimentare soluzioni innovative per supportare iniziative ambientali a prova di futuro.

Le aziende e i loro fornitori dovrebbero collaborare per definire una metodologia il più possibile affidabile e allineata agli standard del settore. Standard come il Protocollo GHG e la Science Based Targets initiative (SBTi) vengono regolarmente aggiornati per incorporare le ultime novità scientifiche e i contributi provenienti da vari settori.

Nel contesto delle emissioni Scope 3, per essere a prova di futuro è necessario allineare gli sforzi di sostenibilità a questi standard industriali in evoluzione, il che aiuta a mantenere la credibilità e a prevenire la non conformità.

Tuttavia, la quantificazione dell’abbattimento all’interno della catena del valore (riduzione delle emissioni di gas serra e/o aumento del sequestro del carbonio) può aggiungere un ulteriore livello di complessità. Per questo motivo, le aziende dovrebbero concentrarsi su strumenti solidi, come i calcolatori delle emissioni di gas serra e i modelli di sequestro del carbonio, nonché sulle migliori pratiche del settore per i protocolli di monitoraggio, rendicontazione e verifica (MRV). Il rapporto di Quantis Tracking Progress in the Supply Chain (“Monitoraggio dei progressi svolti nella supply chain”) può servire da guida alle aziende per capire quando e dove è necessario apportare modifiche.

MONITORARE: trasferire l’impatto generato a livello di fornitore lungo tutta la catena del valore

Per mantenere la trasparenza e costruire la fiducia degli stakeholder, le aziende necessitano di metodologie credibili e verificabili per la rendicontazione delle emissioni Scope 3 lungo tutta la catena del valore.

In definitiva, non si tratta solo di aiutare i fornitori a fare un lavoro migliore: le aziende devono anche mettere in relazione ciò che acquistano con la provenienza dei loro acquisti. È quindi cruciale disporre di un sistema con cui documentare e monitorare gli attributi, che non sono fisicamente legati al prodotto.

I sistemi di catena di custodia sono validi nel connettere questi attributi virtuali al flusso fisico dei prodotti lungo l’intera catena del valore. Questi sistemi tracciano e registrano il trasferimento delle merci e degli attributi associati da una parte all’altra in ogni fase della supply chain.

Esistono due modelli di catena di custodia che possono assicurare la tracciabilità fisica, rispettivamente basati sulla separazione e sul bilancio di massa.

La catena di custodia separata richiede la separazione fisica, che può risultare onerosa. La catena di custodia con bilancio di massa offre una maggiore flessibilità, poiché permette di mescolare flussi diversi mantenendo una contabilità separata degli attributi specificati.

È importante notare che c’è una certa ambiguità intorno al termine bilancio di massa. Le aziende lo utilizzano spesso per descrivere qualsiasi sistema di rendicontazione dello Scope 3 in cui i volumi di input e output sono bilanciati. Tuttavia, una catena di custodia a bilancio di massa si riferisce specificamente a sistemi allineati agli standard ISEAL o ISO, che includono precisi meccanismi di riconciliazione in tutte le fasi della catena del valore.

È interessante osservare che l’integrazione dei modelli a bilancio di massa della catena di custodia con l’approccio dell’area geografica di provenienza, introdotto dalla bozza del Greenhouse Gas Protocol Land Sector and Removals Guidance (GHGP LSRG), offre un potenziale considerevole. Questo metodo consente la tracciabilità e la misurazione delle prestazioni climatiche a livello di area geografica, anziché focalizzarsi esclusivamente sui singoli fornitori. Aggregando le risorse e i dati di un’area geografica definita, questo approccio migliora l’efficienza e la scalabilità della strategia di decarbonizzazione dello Scope 3 di un’azienda. L’approccio è ancora piuttosto recente e le linee guida in merito sono in fase di sviluppo, ma alcune aziende all’avanguardia lo stanno già anticipando e mettendo in pratica.

In ogni caso, le aziende devono scegliere con attenzione il metodo che preferiscono per assicurarsi che ciò che stanno facendo sia tracciabile e contribuisca alla riduzione delle emissioni dello Scope 3. Altrimenti, potrebbero incorrere in una rendicontazione imprecisa, in danni alla reputazione e in potenziali rischi legali e finanziari.

VALORIZZARE: accelerare gli sforzi di decarbonizzazione attraverso adeguati meccanismi di compensazione e incentivazione.

Per incoraggiare i fornitori a partecipare attivamente alla decarbonizzazione dello Scope 3, le aziende dovrebbero considerare l’opportunità di fornire incentivi finanziari e non finanziari per contribuire a mitigare eventuali rischi negativi sul lato della fornitura.

Per risultare più efficaci, questi incentivi devono creare valore a lungo termine. Un sussidio una tantum o un progetto di sostenibilità temporaneo non porteranno al tipo di cambiamento necessario per raggiungere gli obiettivi globali. Gli accordi di acquisto a lungo termine e il sostegno continuo ai fornitori creano una solida base per discussioni costruttive, favorendo future opportunità.

Per avviare e sostenere iniziative a lungo termine, le aziende potrebbero dover iniziare con incentivi più orientati al supporto e alla motivazione (“carrot-based”), per poi passare a incentivi basati sui risultati man mano che i fornitori acquisiscono una maggiore maturità. Ad esempio, l’impegno ambientale dei fornitori potrebbe iniziare con incentivi basati sulla pratica per sperimentare nuove tecnologie o approcci, per poi evolvere verso incentivi più incentrati sul raggiungimento dei risultati attesi (“pay for performance”).

Creare un modello vantaggioso per tutti

Sia gli acquirenti che i fornitori possono trarre notevoli benefici dagli sforzi di decarbonizzazione condivisi. Collaborando per ridurre il profilo delle emissioni dei prodotti, entrambe le parti possono migliorare la propria reputazione in termini di sostenibilità e rivolgersi a consumatori attenti all’ambiente. Le opportunità di sviluppo congiunto e gli investimenti condivisi in sostenibilità possono portare a soluzioni innovative, a risparmi sui costi e a una maggiore efficienza operativa. Questi successi condivisi favoriscono la fiducia, la fedeltà e l’impegno a lungo termine nella partnership.

Quando i fornitori comprendono il legame diretto tra il loro contributo ai dati e il successo complessivo dell’iniziativa di decarbonizzazione, è più probabile che diano priorità alla condivisione e all’accuratezza dei dati. Questa trasparenza va a vantaggio di entrambe le parti, rafforzando la supply chain, riducendo i rischi e creando le basi per una collaborazione futura.

Trasparenza e affidabilità sono fondamentali

La trasparenza è essenziale per realizzare qualsiasi tipo di cambiamento, sia esso legato al clima, alla resilienza del suolo, alla biodiversità, alla gestione delle acque o ad altri rischi legati alla natura. Per realizzare un cambiamento significativo, le aziende devono valutare lo stato degli sforzi di sostenibilità interni e monitorare l’affidabilità.

In particolare, la trasparenza nella rendicontazione, grazie alla pressione dei consumatori e della società civile, crea fiducia negli stakeholder. La crescente consapevolezza dell’emergenza climatica e delle questioni ambientali spinge alla trasparenza nella supply chain. Ciò è particolarmente importante per affrontare l’impatto climatico, poiché i suoi effetti si fanno sentire a livello globale. Le aziende che danno priorità alla trasparenza possono mantenere la credibilità ed evitare di ripetere gli errori del passato.

Con una maggiore attenzione alla trasparenza e alla responsabilità, le aziende hanno bisogno di una solida base per decarbonizzare efficacemente le loro catene del valore, piuttosto che affidarsi a soluzioni a breve termine, come le compensazioni e i meccanismi di bilanciamento.

Per promuovere la trasparenza nel rapporto fornitore-cliente, si possono prendere in considerazione questi passi concreti:

Accesso condiviso ai dati: concedere ai fornitori l’accesso ai dati aziendali rilevanti può facilitare la risoluzione congiunta dei problemi e rafforzare la fiducia reciproca.

Definizione congiunta degli obiettivi: definire in modo collaborativo chiari obiettivi di riduzione dell’impatto ambientale e metriche per monitorare i progressi in modo trasparente.

Valutazioni periodiche delle prestazioni: stabilire un sistema per valutare le prestazioni dei fornitori rispetto agli obiettivi di tutela dell’ambiente e condividere apertamente i risultati.

Audit di terze parti: valutare la possibilità di coinvolgere revisori indipendenti per verificare le dichiarazioni di sostenibilità e consolidare la credibilità.

Canali di comunicazione aperti: mantenere una comunicazione regolare e trasparente con i fornitori sulle aspettative e sui progressi in materia di eco-compatibilità.

Le partnership a lungo termine e la coerenza offrono alle aziende un percorso pratico per migliorare la trasparenza e la responsabilità. Sebbene gli acquisti spot rimangano una pratica comune (e talvolta necessaria) per molte aziende, il passaggio a relazioni stabili con specifiche aree di provenienza può creare maggiore fiducia. Promuovendo queste partnership a lungo termine, le aziende e i loro fornitori possono collaborare meglio alla riduzione delle emissioni di carbonio Scope 3 e al raggiungimento di obiettivi condivisi in ambito di responsabilità ambientale.

Iniziare la conversazione

La comunicazione tra le aziende e i loro fornitori può essere piuttosto complessa, soprattutto quando si passa dalle discussioni sugli acquisti ad argomenti maggiormente incentrati sulla sostenibilità, come le riduzioni in ambito di Scope 3. Ciononostante, queste conversazioni devono essere affrontate, e il prima possibile.

Per cominciare, i team interni dovrebbero ricevere la giusta formazione su come avviare un dialogo con i fornitori, considerando e allineando i KPI, importanti per misurare le prestazioni sia a livello aziendale che individuale. Se non è prevista una remunerazione per i compiti aggiuntivi, il personale potrebbe non trovare vantaggioso impegnarsi. Questo vale sia per i brand che per i loro fornitori.

È fondamentale che i team di sourcing si aggiornino per poter dialogare efficacemente con i fornitori. Spesso i team di sourcing si trovano a negoziare con fornitori che hanno una conoscenza più approfondita della decarbonizzazione della supply chain. Migliorando le loro conoscenze in questo settore, i team di sourcing possono diventare partner più strategici e guidare un cambiamento significativo.

Costruire un futuro migliore, insieme

Le aziende che intendono raggiungere i propri obiettivi di sostenibilità devono affrontare il problema delle emissioni Scope 3. Gli sforzi reciproci di decarbonizzazione, compresi gli investimenti in pratiche innovative, possono offrire ritorni sostanziali rendendo le operazioni a prova di futuro, migliorando la reputazione aziendale e soddisfacendo le crescenti richieste di responsabilità ambientale da parte degli stakeholder.

Coinvolgendo proattivamente i fornitori in opportunità di sviluppo congiunto e investimenti condivisi in materia di sostenibilità, le aziende possono facilitare strategie efficaci per la riduzione delle emissioni Scope 3. Grazie a un impegno e a una collaborazione costanti, i brand e i loro fornitori possono compiere progressi significativi verso gli obiettivi di sostenibilità condivisi, ottenendo vantaggi commerciali reciproci in termini di risparmio sui costi, riduzione dei rischi e vantaggio competitivo.

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Raccogliere le sfide del pianeta: 4 modi per promuovere la resilienza ambientale e aziendale

Comprendere l’importanza di concepire la sostenibilità in senso olistico può essere facile; agire di conseguenza è tutt’altra storia.
Ecco quattro principi fondamentali che collegano il framework dei planetary boundaries alla strategia e alle performance aziendali.

In breve:

  • Il framework dei planetary boundaries fornisce una tabella di marcia per la sostenibilità con approccio olistico, permettendo alle aziende di individuare e dare la priorità agli ambiti di  maggior rischio ambientale.
  • Promuovendo una cultura di gestione responsabile delle risorse ambientali, le aziende possono integrare gli obiettivi di sostenibilità in tutte le funzioni aziendali.
  • Accogliere un modello di economia circolare, abbandonare pratiche obsolete e investire in alternative sostenibili favorirà la sostenibilità ambientale ed economica a lungo termine.
  • La collaborazione con i fornitori, in questa prospettiva, è vitale per trasformare le supply chain, promuovere la trasparenza e garantire l’impegno verso obiettivi di sostenibilità.

Il benessere del nostro pianeta richiede un’attenzione immediata e ci si aspetta che le aziende promuovano sforzi ambiziosi per risanarlo. Le aspettative si traducono in opportunità, poiché le aziende possono basarsi altresì su un business case chiaro che le chiama ad occuparsi di sostenibilità. Le imprese, in quanto motore di innovazione e progresso, sono in una posizione unica per orientare l’economia verso l’allineamento con i limiti della Terra (Planetary Boundaries). Eppure il percorso per agire nel rispetto dei planetary boundaries può apparire complesso, specie se si considerano tutte le incertezze e le complessità della sostenibilità ambientale.

Il framework aggiornato dei planetary boundaries rivela che l’agire umano ha causato il superamento di sei confini su nove, il che ci riporta bruscamente alla necessità di mitigare lo sfruttamento eccessivo delle risorse limitate della Terra. Tuttavia, questo quadro ci offre anche un barlume di speranza, poiché fornisce una chiara tabella di marcia per intraprendere un’azione collettiva e correttiva. Dando priorità alla sostenibilità olistica, le aziende hanno la possibilità di adattarsi ad un ambiente in continua evoluzione e incorporare la resilienza nella loro catena del valore, garantendo così la sostenibilità sul lungo periodo.

Ecco quattro azioni chiave che le aziende devono compiere per operare entro i planetary boundaries:

1) Comprendere le dipendenze da e gli impatti su la Natura (+ i rischi e le opportunità associati) lungo tutta la catena del valore.

Il fondamento della sostenibilità risiede in una profonda comprensione delle dipendenze dalle risorse naturali e degli impatti sulla Natura insiti nelle operation della propria azienda. Dall’approvvigionamento delle materie prime ai processi produttivi, alla distribuzione e all’utilizzo dei prodotti, le aziende si affidano a servizi ecosistemici in ogni fase della catena del valore. Un classico passo falso avviene quando queste concentrano gli sforzi di sostenibilità esclusivamente sulle operation di maggior volume anziché tenere conto dei passaggi della catena del valore che possono comportare un forte impatto ambientale.

Le aziende devono perciò chiedersi: la mia attuale strategia di sostenibilità tiene conto di tutti i temi legati alla Natura, concentrandosi sulle aree che rendono l’azienda più vulnerabile alle minacce ambientali? Si può iniziare conducendo una solida valutazione dell’impatto e delle dipendenze ambientali, per identificare i rischi e le opportunità connessi alle operations in essere. Ciò va ben oltre le emissioni di carbonio e si addentra nella complessità del consumo di acqua ed energia, della perdita di biodiversità, dell’uso e del degrado del territorio. Partendo dalla comprensione di queste dipendenze, sarà possibile mitigare i rischi e al contempo battere nuovi percorsi tesi all’innovazione e all’efficienza. Ad esempio, un’azienda cosmetica può concentrare i propri sforzi sull’impatto del packaging o degli ingredienti utilizzati in volume elevato, per poi scoprire che alcuni ingredienti impiegati in volume inferiore equivalgono a una parte consistente del carico ambientale e costituiscono una dipendenza significativa, rappresentando pertanto un potenziale rischio finanziario per l’azienda. Pur potendo certamente fare progressi con la sua strategia originaria, l’azienda si esporrebbe a notevoli rischi non affrontando i suoi principali punti caldi in ambito ambientale.

Dipendenze e impatti elevati possono essere associati a rischi fisici o di transizione consistenti, che si traducono in un potenziale aumento dei costi operativi o nella perdita di quote di mercato. Spesso la parte più impegnativa non è solo l’identificazione degli hotspot lungo la catena del valore, ma anche la capacità di destreggiarsi tra i vari indicatori e articolarli in un piano d’azione coerente, senza disperdere troppe energie su indicatori non cruciali per le attività specifiche dell’azienda.

2) Spronare le altre funzioni aziendali ad abbracciare una gestione ambientale responsabile.

I team di sostenibilità operano spesso come funzioni satellite, con strategie e piani d’azione che non sono completamente integrati nell’azienda nel suo complesso. Lasciare a un solo team l’onere di gestire la trasformazione sostenibile dell’attività di un’intera società è un’impresa titanica e poco realistica, specie se quel team è isolato dal resto dell’azienda. I team di sostenibilità potrebbero non conoscere a fondo le realtà operative di ogni reparto, il che rende ancora più difficile fissare obiettivi pertinenti.

Per mettere in atto una trasformazione aziendale riuscita e sostenibile, gli approfondimenti e i dati sulla sostenibilità devono essere integrati in tutto il tessuto aziendale, non solo in seno ai team di sostenibilità. I dirigenti al vertice, quelli di alto livello e quelli di medio livello responsabili delle funzioni chiave, come ricerca e sviluppo o approvvigionamento e marketing, devono essere in grado di utilizzare le informazioni fornite dal team di sostenibilità per mettere in atto cambiamenti nei propri reparti.

Affinché il cambiamento possa attecchire davvero, è necessario adottare meccanismi e incentivi specifici per garantire che i responsabili dei reparti agiscano in base a tali informazioni, oltre alle loro consuete priorità. Ogni reparto dell’azienda, dallo sviluppo del prodotto al marketing, dovrebbe essere incaricato di stabilire obiettivi di sostenibilità in linea con le più ampie finalità aziendali. Tale collaborazione potrebbe profilarsi così:

  • Marketing: lancio di una campagna di coinvolgimento dei consumatori incentrata sulla sensibilizzazione e sull’incentivazione di comportamenti sostenibili.
  • Operations: analisi dei rischi operativi legati all’ambiente e raccolta spunti su possibili certificazioni;
  • Finance: collaborazione con il team di sostenibilità per anticipare il contesto normativo, valutare il potenziale impatto finanziario dei rischi operativi e soddisfare le aspettative degli investitori in materia di sostenibilità.
  • Acquisti: gestione dei rischi fisici e di transizione associati alla gamma di materie prime o prodotti di un’azienda per garantire la continuità delle forniture.

Questo tipo di cambiamento organizzativo richiede una chiara visione della sostenibilità, in cui gli obiettivi siano integrati nel processo decisionale a ogni livello. Creando obiettivi rilevanti per ciascun reparto, coloro che non fanno parte del team di sostenibilità potranno capire come contribuire alla strategia complessiva, creando una forte cultura della sostenibilità. Questo switch culturale può aiutare le aziende a vedere progressi concreti nei loro sforzi verso la sostenibilità e contribuire a generare un maggiore valore aziendale.

3) Dimenticare le filosofie aziendali desuete, non sono in linea con un panorama in continua evoluzione.

A causa del sovraconsumo e del depauperamento della Natura e dei servizi ecosistemici, molte aziende hanno finito per utilizzare ancora più risorse naturali come l’acqua, che degradano ulteriormente la terra da cui provengono per ottenere raccolti di pari volume, generando così un ulteriore deperimento e una riduzione progressiva della qualità. In ultima analisi, ciò si traduce in un prodotto qualitativamente inferiore a un prezzo più elevato. Le aziende dovrebbero investire più tempo, denaro e risorse per mantenere la qualità dei prodotti, il che semplicemente non è sostenibile a lungo termine, sia dal punto di vista ambientale che da quello economico.

Le aziende devono abbandonare le pratiche take-make-waste dell’economia lineare, che non consentono all’attività di prosperare in un’economia planetaria. Il passaggio ad approcci più circolari e rigenerativi richiede un cambiamento di mentalità fondamentale. Un modello di economia circolare implica la minimizzazione degli sprechi mantenendo le risorse in uso il più a lungo possibile, estraendone il massimo valore e recuperando e rigenerando in modo responsabile prodotti e materiali al termine del loro ciclo vitale.

Investire nella ricerca e nello sviluppo di alternative sostenibili alle pratiche attuali è un modo per svincolarsi dai modelli di business convenzionali. Le aziende possono partire dal rivalutare i loro processi di approvvigionamento e dal costruire relazioni più solide con i fornitori che aderiscono ai principi dell’economia circolare. Ciò prevede l’approvvigionamento di materiali facilmente riciclabili e la promozione di sistemi a circuito chiuso. Ma anche esplorare materiali di imballaggio alternativi, adottare processi di produzione innovativi o ripensare il ciclo di vita dei prodotti. Inoltre, abbracciare i progressi tecnologici e digitalizzare le operation aziendali può ottimizzare l’uso delle risorse e migliorare l’efficienza complessiva.

4) Collaborare con i fornitori per trasformare le supply chain.

La trasformazione sostenibile non può essere raggiunta in modo isolato. Azionisti, consumatori e fornitori sono stakeholder su cui le aziende fanno affidamento per portare avanti i propri obiettivi di sostenibilità, soprattutto perché, per molte catene del valore, gli impatti sulla Natura esulano dalle attività commerciali dirette.

I fornitori sono stakeholder essenziali e collaborare con loro è di primaria importanza per trasformare le supply chain. Una volta che un’azienda avrà tracciato la mappa dei suoi fornitori, la conduzione di un audit approfondito e l’identificazione delle loro iniziative di sostenibilità potranno far emergere opportunità di miglioramento e promozione dell’impegno collettivo. È essenziale avviare un dialogo trasparente con i propri fornitori, incoraggiandoli ad adottare processi di approvvigionamento, manodopera e produzione sostenibili. È assai probabile che ciò richieda anche un sostegno finanziario di qualche tipo, sia esso l’offerta di premi o il finanziamento di programmi di formazione per i fornitori sulle best practice da adottare.


Operare entro i planetary boundaries tutela l’ambiente e l’umanità, generando al contempo vantaggi tangibili per le imprese. Le aziende che danno priorità alla sostenibilità possono rendere la propria attività a prova di futuro tutelandola da potenziali sconvolgimenti ambientali e garantendone in questo modo la resilienza a lungo termine e la competitività sul mercato. Ciò, oggi, ha senso anche da un punto di vista economico: integrare la sostenibilità nelle operations aziendali può rappresentare una mossa promozionale, mitigare i rischi normativi e aumentare la fiducia degli stakeholder tra fornitori, investitori e consumatori.

Questi principi forniscono alle aziende una tabella di marcia per acclimatarsi e prosperare entro i limiti delle risorse del nostro pianeta. Adottando le giuste misure per affrontare i loro impatti, le aziende possono mitigare i rischi ambientali e sbloccare la trasformazione in termini di sostenibilità.

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L’innovazione si intreccia alla moda

I marchi di moda sono chiamati a raddoppiare i propri sforzi in termini di innovazione per garantire un futuro prospero.

In breve:

  • L’industria della moda fatica a procedere oltre la fase “pilota” rispetto ai materiali innovativi e a basso impatto, fondamentali invece per prepararsi alle esigenze future e raggiungere gli obiettivi di sostenibilità.
  • Le nuove normative mirate alla riduzione dell’impatto ambientale delle materie prime stanno spingendo i Brand ad adottare materiali alternativi a basse emissioni di carbonio. 
  • Investimenti strategici in materiali innovativi possono fornire vantaggi finanziari significativi e aiutare le imprese a ridurre i rischi associati all’impiego di materie prime tradizionali. 
  • Una comunicazione e una collaborazione efficaci con le start-up, così come solide valutazioni ambientali e pianificazione strategica sono fondamentali per integrare con successo i materiali responsabili nei prodotti di moda. 

L’industria della moda è nota per la sua creatività. Tuttavia, quando si parla di trovare soluzioni innovative per far fronte alla crisi ambientale, i marchi sembrano bloccati nella fase sperimentale. I materiali alternativi a basso impatto stanno guadagnando terreno in risposta agli appelli alla sostenibilità lanciati dall’industria, ma non alla velocità o al livello di cui il pianeta ha bisogno.  

E questo non significa che manchino le buone intenzioni. Le aziende hanno reagito con sgomento alla recente notizia che uno degli innovatori più promettenti nel campo dei materiali aveva dichiarato bancarotta. Questo colpo inferto allo slancio innovativo del settore solleva la seguente domanda: i materiali innovativi – e gli innovatori, e le start-up alle loro spalle – sono davvero una scommessa su cui l’industria dovrebbe puntare? 

La risposta è un deciso “sì”. Anziché tirarsi indietro, i marchi di moda dovrebbero raddoppiare gli sforzi di innovazione in prospettiva future-oriented. Lo sviluppo e la domanda di materie prime a basso impatto rispetto a quelle vergini convenzionali è un’area specifica a cui dare priorità. E non solo perché le scarpe di “pelle” ricavata dai funghi o i maglioni realizzati con fibre coltivate in laboratorio sono en vogue in passerella, ma perché il sostentamento del settore – e del nostro pianeta – dipende dal tagliare i ponti con il “business as usual”.  

Il materializzarsi dei rischi si traduce in opportunità di innovazione dei materiali

I decisori politici, propensi a utilizzare la regolamentazione per ridurre l’impatto ambientale dell’industria, prestano attenzione al mondo della moda. Nel corso dei prossimi quattro anni verranno introdotti più di 35 nuovi testi legislativi in tutto il mondo, tra cui restrizioni all’importazione di capi di abbigliamento che si potrebbero alimentare la crisi climatica, linee guida per il design dei prodotti e nuovi requisiti di etichettatura. Gran parte di questa attenzione normativa riguarderà le materie prime, poiché queste ultime possono rappresentare fino a due terzi dell’impatto climatico di un Brand.1  

E mentre le aziende si preparano a soddisfare le normative future e ad abbracciare la sostenibilità, i materiali innovativi di ultima generazione emergono come un promettente tassello del puzzle. L’utilizzo di materiali circolari, riciclati , a base biologica o con minore impronta di carbonio può ridurre in modo significativo l’impatto ambientale di un marchio della moda e supportare quell’85% dei Brand che hanno reso pubblici i propri obiettivi di decarbonizzazione.2  

L’abbandono graduale dei materiali convenzionali può essere anche un’abile mossa commerciale. Secondo l’ultima analisi di BCG, Textile Exchange e Quantis, i marchi che intervengono subito per garantirsi un approvvigionamento di materie prime alternative a basso contenuto di carbonio saranno in grado di ottenere un aumento medio dei profitti del 6% dopo cinque anni. Inoltre, il modello suggerisce che un Brand di moda che fattura oltre un miliardo di dollari all’anno ha il potenziale di sfruttare un’opportunità cumulativa di circa 100 milioni di dollari nell’arco di cinque anni. Queste normative potrebbero al contrario mettere a rischio l’8% dell’utile operativo per i marchi che non adeguano il proprio portafoglio di materie prime. 

La crisi ambientale, che sta rapidamente accelerando i cambiamenti nei nostri ecosistemi, nelle condizioni di coltivazione e nella qualità dei raccolti, continua a mettere a rischio la disponibilità, l’accessibilità e il prezzo delle materie prime convenzionali. Sono sempre più numerosi i marchi di moda che riconoscono la necessità di agire rapidamente e molti hanno già iniziato a esplorare il mondo dell’innovazione dei materiali. 

Tuttavia, esistono diversi esempi di grandi marchi di moda che hanno intrapreso il grande passo, investendo e aiutando a far crescere start-up innovative, per poi incontrare notevoli ostacoli economici e logistici, troppo grandi per essere superati. Orientarsi nel mercato e valutare le potenziali alternative può essere un campo minato, perciò non sorprende che i progressi reali abbiano lasciato il posto a un ciclo infinito di programmi pilota che difficilmente vengono messi in atto. Ma i Brand possono cambiare la situazione? E in che modo? 

Senza una solida strategia, anche le partnership più promettenti e i progetti pilota sostenuti dalle migliori intenzioni possono andare in frantumi. Puntare tutto sull’innovazione per sostenere la creazione dei materiali del futuro significa andare oltre il semplice sviluppo di una piccola collezione di capi di abbigliamento in grado di attirare i consumatori attenti alle tematiche ambientali. Occorre un impegno strategico per spingersi oltre, superare la fase sperimentale e garantire la sicurezza dell’approvvigionamento nella misura necessaria a soddisfare tutti gli impegni presi e gli obblighi nei confronti del pianeta.  

Creare un ecosistema per l’innovazione

L’innovazione progredisce rapidamente, perciò i Brand devono agire con decisione, assicurandosi al tempo stesso di poter contare sulle giuste competenze. È facile rimanere colpiti dalle start-up dell’innovazione quando espongono le proprie soluzioni. Occorre, tuttavia, pragmatismo nel decidere quale percorso intraprendere rispetto ai materiali alternativi. Nel vagliare il loro potenziale, è sbagliato tralasciare l’aspetto relativo alla valutazione ambientale. Un’affidabile analisi dei dati e solide basi scientifiche dovrebbero definire la strategia da adottare e aiutare a sviluppare un approccio che abbia senso per un’azienda e il suo portafoglio di prodotti.  

È bene iniziare selezionando strategicamente l’area di interesse in cui i materiali innovativi possono realmente aggiungere valore e fare la differenza nel lungo periodo. In questo contesto, è importante effettuare valutazioni ambientali in modo sia dinamico che ripetuto per ottenere un miglioramento continuo all’interno del processo di ricerca e sviluppo. Nelle prime fasi dello screening, occorre accertarsi di disporre di un numero sufficiente di dati validi su cui basare le proprie decisioni e tenere conto del fatto che i materiali potrebbero evidenziare scarse prestazioni nelle prime valutazioni ambientali. Le economie di scala potrebbero risolvere questo problema in un secondo momento, pertanto è bene fare le dovute considerazioni. Dopo che le valutazioni di screening avranno fornito un primo orientamento al Brand e al fornitore, analisi più approfondite potranno aiutare a eliminare eventuali hotspot, quali eventuali burden-shifting lungo la catena del valore.  

Vista la ricchezza di soluzioni interessanti e potenzialmente rivoluzionarie in un mercato sempre più affollato di materie prime alternative, i marchi di moda devono effettuare tutti gli opportuni accertamenti. Ad esempio, prima di procedere è bene assicurarsi che la start-up con cui si collabora abbia un modello di business solido e una buona capacità di crescita. Per essere praticabile, il modello commerciale dell’innovatore deve essere al servizio dei Brand. Detto questo, i marchi devono anche essere disposti ad assumersi parte del rischio attraverso accordi vincolanti in termini di volumi e acquisti. È auspicabile che il percorso di innovazione sia veramente collaborativo; poiché saranno necessari investimenti in nuove tecnologie, i marchi di moda dovrebbero essere disposti a investire e diventare partner della catena di fornitura.

È, infine, altrettanto importante garantire una cauta gestione delle aspettative. I nuovi materiali potrebbero non offrire le stesse prestazioni e le medesime qualità dei materiali convenzionali, quindi, è fondamentale essere aperti e pazienti. Potrebbe, infatti, essere necessario continuare a investire in ulteriori test, nella direzione del miglioramento continuo.  

Comunicare con attenzione e parlare con chiarezza

Comunicare in modo efficace il proprio percorso di innovazione è importante quasi quanto il viaggio stesso. Come per qualsiasi attività di ricerca e sviluppo in rapida evoluzione, il coinvolgimento di start-up e innovatori può essere complesso. All’inizio, i dati disponibili potrebbero essere limitati e il raggiungimento di un’economia di scala richiedere del tempo. Tenere aggiornati i propri stakeholder con resoconti trasparenti, precisi e intenzionali sarà quindi un must. I materiali alternativi potrebbero non produrre risultati immediati in termini di impatto ambientale, quindi è molto importante che le comunicazioni siano accurate e tengano conto non solo del potenziale positivo e scalabile dei materiali, ma anche dei limiti di ciò che si può ottenere, rispetto alla variabile tempo.  

L’entusiasmo per il potenziale dei materiali alternativi non dovrebbe mai cedere al greenwashing o all’esagerata enfatizzazione della sostenibilità nelle dichiarazioni di prodotto. È bene parlare del vantaggio reale e quantificabile del materiale, evitando di promuoverlo come “green” o “eco-compatibile” solo per stimolare la domanda dei consumatori. I marchi devono assicurarsi il miglior supporto sul punto, per garantire compliance normativa e successo reputazionale.  

Non bisogna farsi scoraggiare: ora più che mai c’è bisogno di innovazione nell’industria della moda

La diffusa transizione verso materiali a basso impatto ha il potenziale per cambiare le carte in tavola nel campo della moda. La difficoltà nel trovare i partner giusti per risolvere il rompicapo domanda-offerta non dovrebbe essere un fattore deterrente nell’abbracciare l’innovazione. Infatti, come conferma l’analisi di mercato di BCG e Quantis, il vantaggio per i first mover nel campo delle materie prime è significativo, poiché si prevede che solo il 19% dei materiali sarà a basso impatto nel 2030. 

Nel tracciare una solida linea strategica per gli investimenti in innovazione, si avrà modo di guardare con chiarezza e sicurezza al futuro prossimo (piuttosto che concentrarsi sui ritorni immediati), raggiungendo così vantaggi in termini di efficienza e scalabilità e riducendo in maniera decisiva e per sempre l’impronta ambientale della moda. 

Adottando un approccio pragmatico e scientifico ai materiali, integrando i materiali di ultima generazione solo dove aggiungono realmente valore, vagliando attentamente gli innovatori e le loro soluzioni, assumendosi rischi e comunicando con attenzione, i marchi possono risolvere l’enigma dell’innovazione e accelerare la trasformazione sostenibile. 

1 Analisi Quantis – impatti da Tier4 a Tier2 nella Corporate Footprint di brand del fashion.

2 Analisi BCG basata su 36 realtà fashion e Brand, che rappresentano oltre il 10% dei ricavi del settore.

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La Natura in passerella: la Natura rappresenta il tema che l’industria della moda non può ignorare

Il rapporto tra Fashion e Natura deve trasformarsi: la Natura fornisce le risorse che sostengono il settore e, in cambio, quest’ultimo deve adottare misure volte a proteggere e rigenerare gli ecosistemi.

In breve:

  • Fashion e Natura sono in stretta interdipendenza, soprattutto negli ambiti della biodiversità, delle risorse idriche e dell’utilizzo del suolo. Tuttavia, il passaggio da un rapporto di estrazione ad uno di reciprocità tra il comparto moda e gli ecosistemi non sta avvenendo abbastanza rapidamente. 
  • Se le aziende non riusciranno a ridurre il proprio impatto e la propria dipendenza dalla Natura, si esporranno a rischi operativi, normativi e reputazionali. 
  • I brand della moda non possono permettersi di ritenere le azioni a favore del clima separate dagli interventi di conservazione e rigenerazione della Natura. Piuttosto che cercare di ridurre le emissioni di carbonio in maniera isolata, le imprese dovrebbero puntare a limitare gli impatti e la dipendenza dalla Natura per aumentare la resilienza delle proprie attività e preservare le risorse limitate del pianeta. 
  • Integrando la Natura nelle proprie strategie, le aziende della moda possono rafforzarsi in vista dei futuri shock ambientali e creare un modello di business più resiliente. 

La Natura è da tempo una ricca fonte di ispirazione per il comparto della moda. Eppure molti sembrano ignorare i vari modi in cui le loro attività mettono a rischio la Natura e, di conseguenza, il business. Dalle fibre intrecciate nei tessuti al suolo usata per la produzione delle stesse, il successo dell’industria della moda è intrinsecamente legato alla salute degli ecosistemi del nostro pianeta. 

E se la chiave per una moda a prova di futuro consistesse proprio nel proteggere e salvaguardare la Natura? 

In che modo la Natura sostiene la Fashion industry

In quanto industria, cultura e sistema, la moda ha una stretta interdipendenza con la Natura, specialmente negli ambiti della biodiversità, delle risorse idriche e dell’utilizzo del suolo.

+ Biodiversità

Il settore della moda e degli articoli sportivi fa leva sulla biodiversità sia per le materie prime utilizzate nei prodotti – come cashmere, cotone, pelle, viscosa e lana – sia per gli imballaggi. A causa dell’aumento della monocoltura e delle relative rese dei raccolti, abbiamo assistito a un declino del numero di specie utilizzate nella produzione. Anzi, si stima che la biodiversità stia diminuendo a un ritmo 1000 volte superiore a quello Naturale. Questo non solo riduce la diversità genetica e rende i sistemi agricoli meno resilienti alle minacce ambientali, ma incrementa anche la dipendenza del settore dalle specie rimanenti per compensare questo vuoto.  

E benché le fibre naturali rappresentino per loro Natura un rischio per l’ecosistema naturale, ciò non significa che i settori a elevato utilizzo di materiali sintetici, come l’industria degli articoli sportivi, siano esentati dalla definizione di una strategia ambientale. È cruciale affrontare problemi come la dispersione delle microplastiche, il consumo idrico e la biodegradabilità.  

+ Risorse idriche

La qualità e la disponibilità dell’acqua sono ancore di salvezza sia per gli ecosistemi sia per la moda, poiché l’industria consuma oltre 79 trilioni di litri di acqua ogni anno. Dall’irrigazione delle colture ai processi di tintura, la dipendenza del settore dall’acqua è molto articolata. 

La produzione e la lavorazione di colture come il cotone dipendono in notevole misura dall’acqua. Una gestione inadeguata delle risorse idriche accentua la scarsità d’acqua, poiché le acque superficiali e sotterranee impiegate per irrigare i campi di cotone comportano una perdita di acqua dolce.  

Secondo Material Exchange, l’industria della moda è il secondo maggiore consumatore di risorse idriche a causa dei materiali impiegati per decolorazione, tintura, finitura, ammorbidimento, filatura e coltivazione. Purtroppo, durante questi processi, gran parte dell’acqua viene contaminata da sostanze chimiche che, spesso smaltite in modo improprio, inquinano le nostre già scarse riserve idriche e contribuiscono al degrado degli ecosistemi acquatici.  

+ Utilizzo del suolo

La sovrapproduzione nel settore dell’abbigliamento ha un effetto intenso anche sul degrado dei terreni e sulla deforestazione: la coltivazione, il pascolo degli animali e gli impianti di produzione richiedono tutti un considerevole utilizzo del terreno. 

La produzione di pellame e viscosa contribuisce in modo significativo alla deforestazione di diversi ecosistemi, tra cui l’Amazzonia. Ogni anno vengono abbattuti circa 200 milioni di alberi per sostenere la produzione di fibre di viscosa e molti di questi provengono da foreste secolari a rischio, anziché da piantagioni gestite. La deforestazione e il degrado del suolo comportano erosione, impoverimento del terriccio fertile superficiale e riduzione della produttività del terreno.  

L’industria dell’allevamento utilizza circa l’80% dei terreni agricoli del mondo. Lo sfruttamento eccessivo dei pascoli per il bestiame necessario alla produzione di lana e cashmere influisce anche sull’equilibrio delle specie vegetali, con un aumento delle piante erbacee e una diminuzione di alberi e arbusti legnosi, che influenzano la biodiversità delle specie e dell’ecosistema. Parte delle praterie in Mongolia è già stata depauperata da pratiche di sovrapascolo per il cashmere. Inoltre, la mancata risoluzione di questi problemi nel settore della moda potrebbe comportare discontinuità nella catena di fornitura, aumento dei costi, rischi normativi e danni d’immagine. 

Cos’è la moda senza la Natura?  

Il rapporto tra moda e Natura deve trasformarsi da estrattivo a reciproco: la Natura fornisce le risorse che sostengono il settore e, in cambio, quest’ultimo deve adottare misure volte a proteggere e ripristinare gli ecosistemi. Se le aziende non riusciranno a ridurre il proprio impatto e la propria dipendenza dalla Natura, si esporranno a rischi sul piano dell’operatività, della compliance normativa e della reputazione.

+ Resilienza della catena di fornitura

Le perturbazioni dell’ecosistema possono rivelare vulnerabilità nella catena di fornitura di un’azienda. Problemi nella pianificazione e nelle scelte di value chain, quali approvvigionarsi esclusivamente da regioni soggette a instabilità ambientale espone le aziende a rischi quali volatilità dei prezzi, difficoltà di approvvigionamento e compromissione della qualità dei prodotti. Ad esempio, molte aziende del segmento lusso preferiscono fibre di cotone più lunghe, che possono essere prodotte solo in alcune regioni. La crisi del clima e della biodiversità possono comportare una qualità inferiore del cotone a causa dei cambiamenti della temperatura e della riduzione degli impollinatori. Questo può avvenire anche per le materie prime di origine animale, poiché l’aumento delle temperature può comportare qualità inferiore nella lana, ad esempio. 

+ Costi ed efficienza operativa

Le discontinuità di carattere ambientale, dalla scarsità d’acqua agli eventi meteorologici estremi, possono comportare un aumento dei costi di produzione e una diminuzione dell’efficienza operativa. L’aumento dei costi delle materie prime, dell’energia e dello smaltimento dei rifiuti esercita una crescente pressione sui margini e dimostra come le prassi convenzionali a elevata intensità di risorse siano insostenibili a livello sia ambientale che economico. Il modello lineare di produzione, consumo e smaltimento è una strategia senza via d’uscita a fronte dell’aumento nei costi delle risorse e dei potenziali interventi normativi volti a contrastare ulteriori impatti ambientali. 

+ Innovazione e preparazione agli scenari futuri

La lungimiranza è una delle caratteristiche peculiari dell’industria della moda, ma trascurare l’importanza dei temi legati alla Natura è in netto contrasto con una cultura dell’innovazione. Assumere un atteggiamento esclusivamente reattivo nei confronti della Natura non farà altro che mettere la moda sulla difensiva, esponendo le attività di business a vari rischi e impatti ambientali. Gli investimenti negli ecosistemi rigenerativi e l’adozione dei principi dell’economia circolare sono essenziali per restare competitivi in un mercato in rapida evoluzione, plasmato da consumatori sempre più attenti all’ambiente.

+ Conformità normativa

I governi di molti Paesi e gli organismi internazionali stanno riconoscendo l’urgente necessità di normative ambientali più restrittive. All’inizio di quest’anno, l’Unione Europea ha adottato il Regolamento UE sulla deforestazione, che impone alle aziende di rispettare tre condizioni per contribuire a ridurre al minimo il rischio di deforestazione e degrado forestale associato ai prodotti sul mercato europeo. Le aziende che non si allineano a questi standard in continua evoluzione rischiano conseguenze legali, sanzioni e danni d’immagine. La Direttiva CSRD è un altro esempio. Abbracciare la trasformazione sostenibile è fondamentale per il successo e la conformità nel lungo periodo.

Come può la moda sfilare in passerella assieme alla Natura?

Oggi, la riduzione delle emissioni di gas serra figura è un tema fondamentale nelle strategie di sostenibilità e nella definizione degli obiettivi. Ma non possiamo permetterci di ritenere le azioni a favore del clima separate dagli interventi di conservazione e rigenerazione della Natura. Piuttosto che chiedersi come ridurre la footprint in maniera isolata, le aziende dovrebbero porsi questa domanda: come possiamo ridurre il nostro impatto e incrementare la nostra relazione positiva con la Natura per migliorare la resilienza del business e preservare le risorse limitate del pianeta?  

Per affrontare le interdipendenze e costruire un modello di business più resiliente, le aziende dovranno: 

1+ Comprendere le inter-dipendenze

Malgrado storicamente al mercato sia mancato di un metodo standardizzato per quantificare gli impatti sulla biodiversità, alcuni solidi quadri di riferimento globali stanno rapidamente colmando questa lacuna.  

Poiché gli effetti sulla Natura dipendono in misura notevole dal fattore geografico, le iniziative e gli interventi che risultano efficaci in un territorio, ecosistema o comunità non necessariamente funzionano altrove. Occorre iniziare valutando i propri portfolio che possono essere misurati su base regionale, poiché la biodiversità e le questioni legate alla Natura sono specifiche dal punto di vista geografico. Una volta acquisita una maggiore visibilità, le aziende possono raccogliere dati ambientali dai propri coltivatori o allevatori per prepararsi meglio al futuro. Questo può essere agevolato dalla partecipazione a collaborazioni di settore e iniziative collettive che promuovono una raccolta dati efficace. Si tratta di un punto di partenza decisivo per comprendere sia le dipendenze che i rischi associati. 

2+ Affrontare e ridurre l’esposizione al rischio 

Come si è detto in precedenza, affrontare le questioni e le dipendenze legate alla biodiversità richiede una prospettiva regionale. La Taskforce on Nature-related Financial Disclosure (TNFD) ha recentemente pubblicato una guida per le aziende che desiderano identificare le dipendenze, gli impatti, i rischi e le opportunità legati alla Natura utilizzando il framework di localizzazione, valutazione, analisi e preparazione LEAP (Locate, Evaluate, Assess and Prepare). 

Anche la coalizione Science Based Targets Network (SBTN) ha rilasciato un quadro di riferimento per la definizione di obiettivi scientifici per la Natura. Questo approccio punta ad aiutare le aziende a intraprendere azioni immediate sulle tematiche legate alla Natura (come biodiversità, acqua dolce e uso del suolo), stimolandole a identificare le aree di impatto e le opportunità di cambiamento positivo.

3+ Effettuare un’analisi di scenario (dipendenze, opportunità, rischi) 

L’analisi di scenario è uno strumento strategico che le aziende della moda possono usare per valutare sia i propri impatti che le dipendenze dalla Natura e per approfondire le strategie di adattamento ai futuri shock ambientali. Sviluppando scenari alternativi che rappresentano possibili futuri basati sulle variazioni dei fattori chiave, le aziende possono prendere in considerazione scenari che esplorano differenti opzioni di approvvigionamento, prassi di economia circolare e tecnologie innovative in grado di mitigare gli impatti ambientali. Possono quindi definire strategie su come adattare adeguatamente le proprie operation, le prassi della logistica e i prodotti offerti in modo da prosperare in ogni scenario e prepararsi al meglio per i momenti di incertezza. 

4+ Adottare misure immediate 

La definizione degli obiettivi e, idealmente, di una strategia regionalizzata può richiedere tempo, specialmente considerando ciò che occorre per assicurare l’ingaggio di tutti gli stakeholder e stabilire una visione comune. È fondamentale agire subito aderendo alle iniziative del settore e collaborando con aziende simili in programmi sul campo e con fornitori di fiducia per determinare un impatto a breve termine. L’incremento della tracciabilità delle materie prime è fondamentale per comprenderne gli impatti diretti sulla Natura. Mentre i brand si adoperano per migliorare la tracciabilità, dovrebbero iniziare ad affrontare gli impatti lungo le fasi del ciclo di vita su cui hanno acquisito visibilità. Ad esempio, anche se un’azienda ancora non conosce l’origine geografica del cotone che utilizza, può comunque adottare misure volte a limitare gli impatti del suo trattamento a umido, un fattore significativo dell’inquinamento e del consumo idrico. 

5+ Alzare ancora l’asticella  

In ultima analisi, i marchi della moda devono preparare il terreno per una trasformazione completa del loro modello di business, integrando la circolarità nei prodotti per prolungarne la vita ed evitare il più possibile l’uso di materie prime vergini. È importante ricordare che il consumo eccessivo è il primo ostacolo alla possibilità di garantire un futuro sostenibile per il pianeta e per lo stesso comparto. 

L’industria della moda deve utilizzare la sostenibilità come la roadmap del proprio successo. Più che di un imperativo morale o etico, si tratta di una scelta aziendale strategica in linea con le crescenti aspettative dei consumatori, con i contesti normativi e con le pressioni esercitate sul nostro pianeta. Comprendendo e affrontando la propria dipendenza dalla Natura, le aziende della moda possono rafforzarsi in vista di futuri shock ambientali e costruire un modello di business più resiliente. L’appello è chiaro: abbracciare la sostenibilità e intraprendere un percorso di trasformazione olistica verso un futuro in cui moda e Natura coesistano armoniosamente. 

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Nuovo regolamento europeo sul ripristino della natura: impatti e raccomandazioni per le imprese

recommandations sur le nouveau règlement européen sur la restauration de la nature
recommandations sur le nouveau règlement européen sur la restauration de la nature

Il Parlamento europeo ha adottato un ambizioso regolamento volto ad arrestare il declino degli ecosistemi a rischio.
Questa legislazione segna un importante punto di svolta nelle politiche ambientali dell’UE e preannuncia ripercussioni significative sulle imprese nei prossimi anni.

Il 27 febbraio 2024 è stato raggiunto un traguardo importante nella lotta per la salvaguardia della biodiversità in Europa. Il Parlamento europeo ha adottato un ambizioso regolamento volto ad arrestare il declino degli ecosistemi. Questa legislazione segna un importante punto di svolta nelle politiche ambientali dell’Unione Europea (UE) e preannuncia ripercussioni significative sulle imprese nei prossimi mesi, e anni.  Il testo adottato impone agli Stati membri dell’UE di attuare misure di ripristino sul 20% delle aree terrestri e marine dell’Unione entro il 2030, con priorità inserite in Rete Natura 2000. Queste misure, integrate nell’ambito del Patto verde europeo, mirano a ripristinare il 100% dei terreni degradati entro il 2050, con un obiettivo intermedio del 20% entro il 2030.  Il nuovo regolamento rappresenta un importante punto di svolta per le imprese, specialmente per quelle operanti nei settori dell’agricoltura, della silvicoltura, della pesca, dello sviluppo immobiliare e delle infrastrutture (come energia e telecomunicazioni). Tali imprese potrebbero dover realizzare interventi specifici volti a ripristinare gli habitat naturali e gli ecosistemi da esse alterati, il che segnerebbe un cambiamento cruciale nel modo in cui questi settori dovranno gestire il proprio impatto sull’ambiente.

Come imprese dovranno rispondere a questa nuova sfida normativa?

I requisiti imposti da questa proposta vanno oltre semplici vincoli normativi per le imprese europee. Segnano l’inizio di un’epoca in cui la conservazione della biodiversità diventa un imperativo imprescindibile e richiedono agli attori economici un deciso cambio di rotta delle loro pratiche e strategie. Di fronte a questo contesto, le imprese devono prepararsi attraverso cambiamenti fondamentali, che ridefiniranno il loro modus operandi e il loro rapporto con la natura. Ecco come: 

  1. Costi di adeguamento e investimenti aggiuntivi: Le imprese dovranno investire in pratiche di gestione sostenibile dell’ambiente e di ripristino degli ecosistemi. Questo potrebbe comportare elevati costi iniziali sul piano della conformità, in particolare per le imprese che operano nelle zone in cui gli habitat naturali sono degradati. Il settore finanziario giocherà pertanto un ruolo cruciale nel sostenere la transizione e i relativi investimenti.
  2. Cambiamenti nelle pratiche agricole e adattamento dei modelli economici: Gli agricoltori, come gli operatori di altri settori economici, dovranno far fronte a crescenti richieste in materia di conservazione del suolo e di tutela della biodiversità, al fine di allinearsi agli obiettivi di ripristino della natura. Quest’esigenza richiederà una revisione e un adeguamento dei modelli economici. Il nuovo regolamento potrebbe, inoltre, imporre restrizioni su alcune attività economiche nelle aree destinate al ripristino della natura e limitare così le possibilità di sviluppo in alcune aree o modificare le condizioni in cui sarà possibile svolgere alcune attività, ad esempio la costruzione di nuovi hotel o parchi eolici.
  3. Opportunità economiche nel ripristino della natura: D’altra parte, il regolamento potrebbe anche creare nuove opportunità economiche per le imprese specializzate nel ripristino della natura e nella gestione degli ecosistemi. Le imprese innovative, che offrono soluzioni tecnologiche e servizi di recupero ambientale, potrebbero trarre vantaggio dalla crescente domanda da parte di enti pubblici e imprese che intendono conformarsi alle nuove normative. Inoltre, un maggiore impegno a favore del ripristino degli habitat naturali ridurrà in modo significativo i rischi legati alla natura per tutte le imprese, tra cui il calo dei rendimenti agricoli dovuto a impoverimento del suolo, il collasso delle popolazioni di impollinatori e di specie ausiliarie delle colture, le inondazioni e le carenze idriche. Le aziende che investono nel recupero della natura diventeranno più resilienti ai cambiamenti climatici.  Potranno contribuire, tra le altre cose, al ripristino degli habitat naturali, con una migliore gestione delle risorse idriche, riduzione dell’erosione del suolo e il controllo di specie nocive e parassiti.
  4. Maggiore pressione da parte degli stakeholder e dei consumatori: Le imprese saranno sottoposte a una pressione crescente da parte di tutti gli stakeholder, quali investitori, ONG, consumatori, affinché adottino pratiche commerciali sostenibili e contribuiscano alla conservazione della biodiversità. Le imprese che non riusciranno a conformarsi al regolamento subiranno ripercussioni in termini di reputazione e di accesso ai mercati. 

Quali raccomandazioni per la rigenerazione e il ripristino della natura?

Se vogliamo invertire la tendenza della perdita di biodiversità e salvaguardare i servizi essenziali, che sostengono la nostra economia e la vita umana, quali l’approvvigionamento idrico, la fertilità del suolo, le risorse naturali e il ciclo dei nutrienti, è fondamentale adottare pratiche di conservazione e ripristino degli ecosistemi in chiave ecologica. Questi servizi ecosistemici costituiscono le basi del nostro benessere e della nostra prosperità, pertanto la loro protezione non solo rappresenta un imperativo ambientale, ma anche un imperativo economico e sociale. Per contrastare in modo efficace il declino della biodiversità, le imprese devono impegnarsi in una serie di azioni che vanno dalla conservazione (evitare e ridurre), al ripristino e alla rigenerazione. Tutto questo, in un contesto normativo in continua evoluzione. Per ripristinare con successo gli ecosistemi degradati, occorre adottare un approccio olistico e sistemico ed è richiesta pianificazione, un’implementazione adattiva e una collaborazione a tutti i livelli. Ecco alcune raccomandazioni per attuare azioni di ripristino efficaci: 

  1. Un approccio basato sulla scienza: Prima di avviare interventi di ripristino, occorre valutare lo stato attuale dell’ecosistema in modo da comprendere gli impatti, le specie colpite e i processi ecologici compromessi.  
  2. Obiettivi chiari e misurabili: Stabilire obiettivi di recupero che siano specifici, misurabili, realizzabili, pertinenti e con scadenze precise (SMART), sulla base di dati scientifici e parametri di riferimento.
  3. Ripristino degli habitat naturali: Dare priorità al ripristino degli habitat più deteriorati o più importanti per la biodiversità e per i servizi ecosistemici, ad esempio le zone paludose.
  4. Reintroduzione di specie endemiche: In alcuni casi, per ristabilire gli equilibri ecologici può essere necessaria la reintroduzione di specie endemiche scomparse dall’ecosistema, ad esempio i predatori delle catene alimentari.
  5. Lotta contro le specie invasive: Identificare e controllare le specie invasive che minacciano gli ecosistemi locali.
  6. Gestione e monitoraggio a lungo termine: Stabilire un programma di monitoraggio per valutare i progressi del ripristino rispetto agli obiettivi stabiliti e per consentire eventuali adattamenti nel corso del tempo.
  7. Coinvolgimento degli Stakeholder (engagement): Coinvolgere negli interventi di ripristino le comunità locali, le ONG, le imprese e altre parti interessate, per garantirsi il loro sostegno e la loro partecipazione.
  8. Condivisione della conoscenza: Incoraggiare la condivisione di esperienze, successi e fallimenti per migliorare le pratiche di recupero. 

Il nuovo regolamento sul ripristino della natura adottato dal Parlamento europeo non solo mira ad arrestare la perdita di biodiversità, ma anche a promuovere la resilienza degli ecosistemi e la loro capacità di fornire servizi ecosistemici essenziali. Man mano che gli Stati membri inizieranno ad attuare le misure di ripristino necessarie, le imprese dovranno adattarsi all’evoluzione del contesto normativo e cogliere le opportunità offerte dalla transizione verso un’economia più rispettosa della natura. In definitiva, il ripristino degli ecosistemi costituisce non solo una sfida, ma anche un’opportunità di agire insieme alla natura per la natura e rappresenta un’importante fonte di innovazione per le imprese europee.

Portrait of Elsa Maurice, Nature Lead chez Quantis France

“Il ripristino della natura rappresenta non solo una sfida per le imprese, ma soprattutto un’opportunità per ridefinire il nostro rapporto con l’ambiente e costruire un futuro più sostenibile per tutti”.

Elsa Maurice, Nature Lead presso Quantis Francia 

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CONTRIBUTI

+ Alain Vidal, Consulente Senior, Biodiversità + Agricoltura rigenerativa

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Il volto nascosto della bellezza: mitigare i rischi correlati alle materie prime nella cosmetica sostenibile

raw material risks in sustainable cosmetics
raw material risks in sustainable cosmetics

Con le migliaia di ingredienti contenuti nelle formule degli odierni cosmetici e l’importanza primaria del packaging nella presentazione, i team di R&D e di design del prodotto devono scegliere con grande cautela le materie prime da utilizzare.

Con le migliaia di ingredienti contenuti nelle formule degli odierni cosmetici e l’importanza primaria del packaging nella presentazione, i team di ricerca e sviluppo e di design del prodotto devono scegliere con grande cautela le materie prime da utilizzare. I consumatori prestano sempre più attenzione alle etichette degli ingredienti, ed i team di ricerca e sviluppo intendono dare la priorità a materiali sostenibili. Inoltre, le disposizioni normative sulla sostenibilità dei prodotti si stanno intensificando, gli investitori passano al vaglio le informative di carattere non finanziario e i rivenditori, retail come Sephora, introducono le proprie linee guida in materia per i brand.   

In tutta risposta, molti marchi di cosmetici e di prodotti per la cura della persona sono alla ricerca di soluzioni innovative. Tuttavia, si ritrovano spesso a focalizzare l’attenzione su una serie limitata di obiettivi (ad esempio specifiche tendenze di consumo come la bellezza naturale) o sul raggiungimento degli obiettivi comunicati relativi alla riduzione delle emissioni di carbonio o dell’utilizzo di materiali plastici. E questo comporta il rischio di un impact shifting non intenzionale.  

Impact shifting: una sfida importante per l’industria cosmetica  

Per i brand che operano nel settore della bellezza, i rischi di uno spostamento dell’impatto sono particolarmente rilevanti nella diffusa tendenza che punta a materie prime provenienti da fonti naturali. La domanda di materie prime di origine biologica è aumentata poiché i consumatori ritengono che gli ingredienti naturali siano meno dannosi dal punto di vista chimico o maggiormente eco-compatibili. Anche altre priorità comuni nell’ambito di una gestione responsabile dell’ambiente, come la decarbonizzazione e la riduzione dell’inquinamento causato dalla plastica, stanno determinando un rinnovato orientamento verso materie prime naturali, sia per gli ingredienti che per i materiali di imballaggio. Si possono citare come esempi il boom di popolarità degli oli essenziali vegetali, la domanda di bioetanolo derivato dalla canna da zucchero, la sostituzione dei siliconi a elevato contenuto di carbonio con esteri di origine biologica, il passaggio dalla plastica alle fibre per i materiali da imballaggio e l’introduzione della cellulosa in sostituzione delle microplastiche. 

Anche i materiali a base biologica, tuttavia, possono avere impatti significativi sull’utilizzo del suolo e sulla biodiversità. Un esempio tanto preoccupante quanto ormai familiare è quello della coltivazione dell’olio di palma, che ha finito per causare il 7% della deforestazione globale tra il 2000 e il 2018. Per alcuni ingredienti, come gli oli essenziali, l’aumento della domanda ha comportato anche un’industrializzazione della produzione. Gli oli essenziali richiedono notevoli quantità di materie prime per rese ridotte. Basti pensare che occorrono 50 petali per ottenere una singola goccia di olio di rose. L’industrializzazione della produzione, necessaria a soddisfare la crescente domanda, può causare inoltre un utilizzo più intensivo di fertilizzanti e pesticidi. Pertanto, ogni variazione nei materiali determina spostamenti di impatti non intenzionali da un sistema a un altro, ad esempio con la riduzione delle emissioni di carbonio in parallelo a un aumento del consumo idrico oppure con l’eliminazione dell’inquinamento causato dalla plastica, ma a scapito di un incremento della deforestazione.  

Lo spostamento dell’impatto si verifica anche con le migliori intenzioni di trasformazione sostenibile. Le aziende nel settore della cosmetica e dell’igiene personale devono essere consapevoli dei rischi e prendere decisioni ponderate. 

Se si vuole evitare l’impact shifting, occorre incentrare l’innovazione non più su un numero ristretto di obiettivi, bensì adottare approccio più olistico finalizzato alla creazione di nuovi prodotti eco-compatibili e che miri a limitare conseguenze più generali sull’ambiente. Le aziende capaci di identificare e mitigare i rischi di spostamento dell’impatto sapranno scegliere materiali e processi adeguati alle sfide future e potranno accelerare il proprio percorso verso la riduzione dell’impatto. Questa trasformazione richiede tre passi importanti:  

1. Comprendere gli effetti complessivi delle materie prime e identificare i rischi di spostamento dell’impatto

Per prendere decisioni ponderate sull’innovazione dei materiali, i brand devono anzitutto effettuare una valutazione del ciclo di vita (LCA) per analizzare i molteplici impatti durante l’intero ciclo di vita del prodotto. Una risorsa disponibile è la metodologia europea per la valutazione dell’impronta ambientale dei prodotti (PEF), che comprende 16 indicatori con cui misurare gli impatti su emergenza climatica, ecosistemi, salute umana, uso delle risorse e consumo idrico. In collaborazione con Quantis, L’Oréal ha sviluppato il Sustainable Product Optimization Tool (SPOT), un innovativo strumento di eco-progettazione per valutare le performance ambientali del brand nel tempo.

2. Consentire l’utilizzo dei dati sull’impatto da parte dei team di ricerca e sviluppo 

La semplice misurazione dell’impatto non è sufficiente a guidare un’innovazione rispettosa delle risorse. È necessario che le aziende permettano ai propri team di utilizzare i dati sull’impatto per orientare le scelte di progettazione dei prodotti e a tal fine dovrebbero:

Ripensare i processi di sviluppo del prodotto in modo da includere le informazioni sull’impatto ambientale fin dalle prime fasi di progettazione. Oggi, i dati sull’impatto disponibili sono spesso visibili solo ai team che si occupano di sostenibilità, escludendo i team di ricerca e sviluppo. Le considerazioni ambientali vengono incluse tardivamente nel processo di sviluppo del prodotto, se non addirittura ignorate.

Integrare gli aspetti ambientali nelle strutture di governance, affiancandoli ad altre considerazioni di carattere economico, come la redditività e l’efficacia. L’adozione di regole e strutture chiare contribuisce a semplificare il processo decisionale nelle fasi cruciali dello sviluppo. Ad esempio, i brand possono scegliere di approvare solo prodotti con un impatto complessivo inferiore rispetto ai predecessori o che presentano determinate caratteristiche di responsabilità ambientale.

Aggiornare le competenze del personale di ricerca e sviluppo e di altri team in materia di sostenibilità e valutazione del ciclo di vita dei prodotti, per aiutarlo a comprendere i dati, sviluppare una mentalità di eco-progettazione e mediare tra potenziali compromessi in termini di impatto.

3. Collaborare con la catena del valore

I team di approvvigionamento svolgono un ruolo determinante nell’integrazione dei materiali più sostenibili allo scopo di ridurre i rischi di spostamento dell’impatto. Ma l’allineamento sugli obiettivi richiede soprattutto un confronto interno tra i team di approvvigionamento, ricerca e sviluppo e sostenibilità. Per mitigare l’impact shifting lungo la catena del valore, le aziende possono utilizzare le seguenti leve:

Adottare le migliori prassi in materia di approvvigionamento sostenibile per i materiali ad alto rischio, sia affidandosi a certificazioni riconosciute come la Roundtable for Sustainable Palm Oil (RSPO) o il Forest Stewardship Council (FSC), sia monitorando e coadiuvando i fornitori sulle politiche di approvvigionamento sostenibile. Il lavoro con i fornitori può avere l’ulteriore vantaggio di garantirsi l’approvvigionamento di alcuni materiali sostenibili limitati nel breve termine.

Diffondere e sostenere pratiche di agroecologia, come l’agricoltura rigenerativa, all’interno delle proprie catene del valore. L’implementazione di questi metodi su larga scala consente alle aziende di andare oltre la semplice riduzione dell’impatto, intervenendo con un’azione positiva sulla natura.

Favorire l’innovazione costante dei materiali collaborando con i fornitori (comprese le startup) allo sviluppo e all’attenta selezione di alternative alle materie prime naturali, come alghe o rifiuti agricoli. Alcuni brand di profumi hanno sperimentato l’etanolo derivante dalla cattura del carbonio, che riduce l’uso del suolo ed elimina quasi completamente il consumo idrico, mentre le aziende che intendono sostituire i siliconi possono prendere in considerazione gli esteri di origine biologica ricavati dai rifiuti.

Un approccio olistico all’innovazione

Le normative a livello nazionale e comunitario, gli standard in materia di comunicazione e reporting e il dibattito pubblico stanno evolvendo verso una visione più globale della sostenibilità. Secondo uno studio di Boston Consulting Group, il 71% dei consumatori di prodotti per la cura della pelle nutre preoccupazioni sul tema della sostenibilità. In Europa e negli Stati Uniti, la legislazione di recente o imminente approvazione relativa ai prodotti di bellezza affronta tematiche come la deforestazione, la riduzione dell’inquinamento causato dalla plastica e la regolamentazione degli ingredienti ritenuti dannosi per l’ambiente. Al tempo stesso, la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) dell’UE sta cambiando i requisiti, includendo non solo la crisi climatica ma anche le informative sull’impatto e sulla dipendenza delle aziende dalla Natura.

Per sviluppare prodotti e modelli di business adeguati alle esigenze future ed evitare lo spostamento dell’impatto, i brand del settore bellezza devono adottare una visione olistica e considerare molteplici impatti ambientali nella progettazione dei propri prodotti. Questo consentirà ai team di ricerca e sviluppo di produrre cosmetici più sostenibili e far progredire l’intero comparto.

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Quali standard per la footprint ambientale nel settore sanitario?

Quantis è lieta di sostenere la decarbonizzazione del settore sanitario su scala globale grazie alla collaborazione con la Task Force per i sistemi sanitari di Sustainable Markets Initiative.
La sfida è di sviluppare uno standard per l’assessment del ciclo di vita (LCA), volto a migliorare la trasparenza e a definire la valutazione nonché la riduzione dell’impatto ambientale dei farmaci lungo tutta la catena del valore.

Il settore sanitario è responsabile di circa il 5% delle emissioni totali di gas a effetto serra (GHG), di cui oltre la metà proveniente dalle supply chain manifatturiere. Come partenariato pubblico-privato lanciato alla COP26, la Task Force è impegnata anche in una serie di altre iniziative finalizzate a promuovere la decarbonizzazione nel settore sanitario su scala globale; tra queste, il dialogo con i fornitori di energia in Cina e in India per incentivare l’utilizzo di energia rinnovabile nella supply chain. Si tratta della prima partnership di questo tipo, che vede grandi società del settore sanitario come AstraZeneca, GSK, Novo Nordisk e Roche unire le forze in queste zone, portando avanti congiuntamente iniziative a favore della riduzione delle emissioni di carbonio.

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Tutto ciò che le imprese devono sapere sulla direttiva relativa alla rendicontazione societaria di sostenibilità (Corporate Sustainability Reporting Directive, CSRD) dell’UE

EU’s Corporate Sustainability Reporting Directive - CSRD
EU’s Corporate Sustainability Reporting Directive - CSRD

Tutte le società quotate e le grandi società non quotate operanti in UE dovranno adottare la CSRD entro il 2029.

La rendicontazione ambientale, sociale e di governance (ESG) è fondamentale per mostrare l’impegno delle imprese verso la sostenibilità. E nel panorama aziendale odierno, è un imperativo strategico.  

Tuttavia, nella gran parte dei mercati vi sono pochi e disomogenei regolamenti che attuano metriche e metodologie standardizzate, e questo causa dati incoerenti che ostacolano la comparabilità tra imprese e settori. Senza principi di rendicontazione chiari, le imprese sono libere di evidenziare i propri punti di forza e minimizzare le proprie debolezze. Il risultato? Investitori poco informati e accuse di greenwashing, due fattori che sul lungo periodo raramente aiutano le imprese. 

L’Unione europea sta assumendo un ruolo guida per ovviare a queste carenze e codificare un principio che possa essere adottato in modo uniforme. Questo affinché le iniziative per la sostenibilità da parte delle imprese possano essere facilmente confrontate e le aziende che inseriscono fattori ESG tra i criteri di investimento siano in tal modo debitamente informate. Il 31 luglio 2023 la Commissione europea ha adottato i principi europei di rendicontazione di sostenibilità (European Sustainability Reporting Standards, ESRS) che dovranno essere utilizzati da tutte le società soggette alla direttiva relativa alla rendicontazione societaria di sostenibilità (CSRD).  

L’atto delegato pubblicato adotta la versione finale degli ESRS ed è integrato dagli Allegati I e II, i quali definiscono i principi di rendicontazione di sostenibilità che le imprese devono utilizzare in conformità alla CSRD.  

Cos’è la CSRD?

Nell’ambito del Green Deal europeo, la CSRD mira a valorizzare la rendicontazione di sostenibilità e la trasparenza vincolando le imprese a utilizzare principi comuni che semplifichino la valutazione del rendimento delle proprie performance di sostenibilità da parte di investitori, organizzazioni della società civile, consumatori e altri stakeholder. La direttiva impone a tutte le grandi imprese e società quotate, ad eccezione delle microimprese quotate, la comunicazione delle informazioni sui rischi e le opportunità per la propria impresa derivanti da problemi sociali e ambientali e sull’impatto delle proprie attività su persone e ambiente.  

Le informazioni devono essere comunicate nel rispetto degli ESRS, che sono stati adottati dalla Commissione attraverso atti delegati mirati a definirne il contenuto e, ove possibile, la struttura per la presentazione delle informazioni. L’atto delegato relativo agli ESRS sarà trasmesso al Parlamento e al Consiglio dell’Unione europea per un periodo di controllo di due mesi, e l’implementazione per alcune imprese è prevista per l’esercizio finanziario 2024. 

La CSRD sostituisce e si basa sulla direttiva relativa alla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario (Non-Financial Reporting Directive, NFRD) esistente, per rafforzare e semplificare i requisiti di rendicontazione di sostenibilità. La NFRD difettava di importanti dettagli per investitori e stakeholder, pertanto rendeva difficoltoso il confronto fra resoconti aziendali e creava incertezza sulla loro affidabilità ed efficacia. Per dare credibilità al settore degli investimenti verdi, gli investitori necessitano di informazioni affidabili sull’impatto ambientale delle imprese (e sulle loro strategie per ridurre questo impatto in futuro), al fine di indirizzare i fondi in modo adeguato verso iniziative correlate alla sostenibilità.  

L’estensione dell’ambito di applicazione della CSRD rispetto alla NFRD ha lo scopo di ridurre il greenwashing delle imprese, nonché comunicare in modo completo e concordato le tematiche ESG. La CSRD mette inoltre sullo stesso livello rendicontazione di sostenibilità e rendicontazione finanziaria, con la richiesta che le informazioni sui rischi per la sostenibilità siano più facilmente fruibili dal pubblico.  

Cosa impone la CSRD? 

La finalità principale della CSRD è fornire agli stakeholder interessati, compresi investitori, consumatori e decisori politici, informazioni di carattere non finanziario confrontabili per valutare i rischi aziendali relativi al cambiamento climatico e altre questioni ESG. Poiché le imprese dovranno redigere le rendicontazioni attenendosi a un quadro comune, gli stakeholder avranno accesso a informazioni più chiare, confrontabili e affidabili.

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Le imprese dovranno innanzitutto comunicare un quadro generale della propria struttura legale e strategica per poi approfondire il loro percorso di sostenibilità. Tuttavia, alcune tematiche ESG sono più rilevanti per alcune imprese e settori rispetto ad altre. Nel determinare le tematiche ESG che le imprese dovranno rendicontare, gli ESRS adottano una prospettiva di “doppia materialità”. Le rendicontazioni devono includere anche le strategie aziendali di mitigazione e adattamento ai rischi ESG, a seconda dei risultati della valutazione della doppia materialità.  

Le informazioni segnalate devono includere prospettive a breve, medio e lungo termine, ove possibile. La rendicontazione deve essere integrata nell’ambito di un rapporto di gestione aziendale anziché essere pubblicata come relazione annuale separata e deve essere in formato digitale standardizzato, in modo che possa essere facilmente confrontata con quella di altre imprese.

Cos’è la doppia materialità?

La CSRD sottolinea l’approccio della doppia materialità come fase cruciale per la conformità e impone alle imprese di eseguire una valutazione che consideri sia l’impatto concreto delle attività dell’impresa sulla società e sull’ambiente sia il modo in cui le questioni ESG incidono materialmente sull’impresa.  

A seconda dei risultati della valutazione della materialità di un’impresa, la rendicondazione ai sensi della CSRD dovrà includere una serie di questioni ambientali oltre al clima, tra le quali inquinamento, acqua, biodiversità e uso delle risorse naturali, nonché temi sociali e di governance. 

Termini chiave

​Doppia materialità → ​Approccio che comprende sia il modo in cui le questioni in materia di sostenibilità creano rischi e opportunità finanziarie per un’impresa (materialità finanziaria) sia l’impatto dell’impresa su persone e ambiente (materialità dell’impatto). 

​Materialità finanziaria → Una questione di sostenibilità ha un impatto o, presumibilmente, potrebbe avere un impatto (positivo o negativo) su un modello aziendale, sul flusso di cassa, sul valore dei ricavi o sul valore dell’impresa. 

Materialità dell’impatto → Un’attività aziendale ha un impatto effettivo o potenziale (positivo o negativo) sulle persone o sull’ambiente nel breve, medio e lungo termine.  

Mitigazione e adattamento

Oltre alla doppia materialità, le imprese devono comunicare le proprie strategie di mitigazione e adattamento ai rischi correlati alla sostenibilità. Le imprese dovranno descrivere il proprio modello e la propria strategia aziendale, un calendario delle iniziative di sostenibilità, governance, impatti, rischi e KPI. Queste informazioni consentiranno a investitori e altri stakeholder rilevanti di tenere traccia dei progressi delle iniziative in materia di sostenibilità societaria. 

Rendicontazione ai sensi della CSRD 

La CSRD prevede che le informazioni sulla sostenibilità siano subordinate ad attestazione della conformità. I revisori legali delle imprese saranno obbligati a eseguire un’attestazione della conformità della rendicontazione di sostenibilità in collaborazione con un altro revisore o una società di revisione contabile indipendente. Le relazioni dei revisori devono essere integrate nella rendicontazione dell’impresa e allinearsi ad altre iniziative di normazione globali, come il regolamento relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (SFDR) e il regolamento sulla tassonomia dell’UE. 

Non sono ancora disponibili informazioni su modalità e tempistiche con cui la Commissione europea comminerà sanzioni alle imprese che non rispettano la CSRD. Si presume, tuttavia, che saranno ingenti. 

I principi di rendicontazione sono 12 e riguardano l’intera gamma delle questioni di sostenibilità, in linea con la proposta del Gruppo consultivo europeo sull’informativa finanziaria (European Financial Reporting Advisory Group, EFRAG): 

Gruppo  Numero  Tema 
Trasversale  ESRS 1  Prescrizioni generali 
Trasversale  ESRS 2  Informazioni generali 
Ambientale  ESRS E1  Cambiamenti climatici 
Ambientale  ESRS E2  Inquinamento 
Ambientale  ESRS E3  Acque e risorse marine 
Ambientale  ESRS E4  Biodiversità ed ecosistemi 
Ambientale  ESRS E5  Uso delle risorse ed economia circolare 
Sociale  ESRS S1  Forza lavoro propria 
Sociale  ESRS S2  Lavoratori nella catena del valore 
Sociale  ESRS S3  Comunità interessate 
Sociale  ESRS S4  Consumatori e utilizzatori finali 
Governance  ESRS G1  Condotta delle imprese 

L’ESRS 1 (“Prescrizioni generali”) definisce principi generali da applicare per la rendicontazione, ma non stabilisce requisiti di comunicazione specifici. L’ESRS 2 (“Informazioni generali”) stabilisce le informazioni di base che devono essere fornite a prescindere dal tema della sostenibilità oggetto di considerazione. L’ESRS 2 è inoltre obbligatorio per tutte le imprese ai sensi della CSRD. 

Tutti gli altri principi e i singoli obblighi di comunicazione (compresi gli elementi d’informazione in essi contenuti) sono soggetti a una valutazione della materialità. Le imprese dovranno riportare solo le informazioni rilevanti e potranno omettere le informazioni non rilevanti per il proprio modello aziendale e attività. 

Quali imprese saranno interessate dalla CSRD e quando? 

La CSRD si applicherà alle aziende quotate con sede nell’UE, insieme a tutte le realtà non quotate con sede nell’UE considerate “grandi”. Ovvero che hanno più di 250 dipendenti, un fatturato annuo di oltre 50 milioni di euro e/o un bilancio di oltre 25 milioni di euro.

Sono circa 50 000 le società quotate che dovranno conformarsi alla CSRD, sebbene l’implementazione iniziale preveda esenzioni. Tutte le società quotate che operano in UE dovranno adottare la CSRD entro il 2029. 

Le imprese dovranno iniziare a eseguire la rendicontazione ai sensi degli ESRS secondo la seguente tempistica:

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Esercizio finanziario 2024 → Le imprese soggette in precedenza alla NFRD (grandi società quotate, grandi banche e grosse compagnie assicurative con più di 500 dipendenti) nonché grandi società quotate non-UE con più di 500 dipendenti avranno l’obbligo di rendicontazione nell’esercizio finanziario 2024, con la pubblicazione della prima dichiarazione di sostenibilità nel 2025. 

Esercizio finanziario 2025 → Altre grandi imprese, comprese altre grandi società quotate non-UE, avranno l’obbligo di rendicontazione nell’esercizio finanziario 2025, con la pubblicazione della prima dichiarazione di sostenibilità nel 2026. 

Esercizio finanziario 2026 → Le PMI quotate, comprese PMI quotate non-UE, avranno l’obbligo di rendicontazione nell’esercizio finanziario 2026, con la pubblicazione della prima dichiarazione di sostenibilità nel 2027.  Tuttavia, le PMI quotate possono decidere di non sottostare ai requisiti di rendicontazione per altri due anni. L’ultima data utile per iniziare la rendicontazione per una PMI quotata è l’esercizio finanziario 2028, con la pubblicazione della prima dichiarazione di sostenibilità nel 2029. 

Esercizio finanziario 2028 → Inoltre, le imprese non UE con un fatturato superiore a 150 mio. di euro all’anno in UE e che hanno  

(a) una succursale con un fatturato superiore a 40 mio. di euro 

(b) una filiale che è una grande impresa  

(c) una PMI quotata 

in UE avranno l’obbligo di rendicontare l’impatto sulla sostenibilità a livello di gruppo di detta impresa non-UE a partire dall’esercizio finanziario 2028, con la pubblicazione di una prima dichiarazione di sostenibilità nel 2029. Principi separati saranno adottati specificamente per questo caso. 

Oltre la CSRD 

Sebbene la CSRD sia stata adottata dalla Commissione europea, avrà implicazioni a livello globale. Tutte le società quotate che operano in UE, anche con sede centrale al di fuori dell’UE, dovranno conformarsi alla CSRD, fattore che segna l’inizio della globalizzazione in fatto di rendicontazione di sostenibilità. 

Molti altri Paesi hanno in programma l’elaborazione di regolamenti in linea con la CSRD o all’altezza delle sue ambizioni. Il Regno Unito, ad esempio, sta progettando la creazione di standard relativi all’informativa sulla sostenibilità (SDS) per la rendicontazione societaria sui rischi correlati alla sostenibilità, ponendo le basi per una legislazione futura sui temi della sostenibilità. Anche la Svizzera ha annunciato programmi per valutare l’allineamento alla CSRD. L’obiettivo finale è avere un quadro globale standardizzato per la rendicontazione di sostenibilità. 

Cosa possono fare le imprese per prepararsi? 

Sono previste cinque fasi che ogni impresa deve intraprendere per prepararsi alla CSRD: 

Fase 1: sapere se e quando l’impresa deve conformarsi. Prima di fare programmi, occorre sapere se la propria impresa rientra nell’ambito della CSRD. In caso affermativo, è importante sapere in quale ambito specifico si rientra per potere stabilire con precisione la tabella di marcia. 

Fase 2: esaminare la propria governance in materia di sostenibilità societaria o i ruoli e le responsabilità riguardanti la rendicontazione e comunicazione della CSRD nella propria organizzazione. Chi è responsabile? Chi deve essere coinvolto nella catena del valore? Che tipo di formazione e coinvolgimento è necessario? 

Fase 3: iniziare ad affrontare la doppia materialità e a coinvolgere gli stakeholder interessati.  Una valutazione della materialità può catturare varie prospettive sull’ESG e fornire informazioni importanti per impostare la rotta e stabilire dove può essere necessario un investimento futuro. La doppia materialità della CSRD (impatto finanziario e impatti ambientali e sociali) determina un raggruppamento di matrici delle tematiche ESG che le imprese possono utilizzare per verificare la conformità oppure garantire la trasformazione sostenibile. 

Fase 4: individuare le lacune nei sistemi di raccolta e gestione dei dati. Cosa è attualmente oggetto di rendicontazione? Cosa non è attualmente oggetto di rendicontazione? Confrontare l’attuale quadro di sostenibilità (se presente) con i requisiti della CSRD e degli ESRS. Gli ESRS sono un quadro basato su altri quadri (GRI, TCFD, tassonomia dell’UE, ecc.); quindi se l’impresa sta già svolgendo le rendicontazioni non finanziarie sulla base di tali regolamentazioni, l’analisi delle lacune sarà più semplice. 

Fase 5: identificare potenziali effetti finanziari, rischi di transizione e opportunità legate al clima. Se da un lato, ad esempio, la divulgazione dei dati sul cambiamento climatico non è obbligatoria, dall’altro è fortemente raccomandata. Se un’impresa decide che il cambiamento climatico non è un aspetto fondamentale e non redige alcun resoconto a riguardo, deve motivare questa decisione in modo dettagliato in base alla valutazione della materialità. Poiché il cambiamento climatico ha conseguenze sistemiche ad ampio raggio sull’economia, le imprese devono rendicontare le emissioni e gli obiettivi di riduzione dei gas a effetto serra (GHG) degli ambiti 1, 2 e 3.  Se attualmente l’impresa non ha obiettivi di riduzione, sarà necessario comunicare quando questi programmi saranno elaborati.  

È fondamentale non sottovalutare il lavoro da svolgere per conformarsi agli ESRS e iniziare a prepararsi ora per consentire all’impresa di avere successo con investitori, consumatori e i quadri normativi pertinenti. 

Serve aiuto per esplorare la CSRD o i cinque principi ambientali? Contattate il nostro team! 

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Agricoltura rigenerativa: il futuro dell’agricoltura per sistemi alimentari e territoriali più sostenibili ed equi

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Con l’adozione di un approccio integrato, l’agricoltura rigenerativa offre uno strumento per affrontare gli impatti e i rischi ambientali che influenzano molteplici planetary boundaries.

In breve:

  • L’agricoltura convenzionale è un fattore chiave della crisi ambientale e allo stesso tempo dipende in maniera preponderante dalle risorse naturali e dai servizi ecosistemici attualmente a rischio.
  • L’agricoltura rigenerativa è definita come un approccio olistico e integrato alla produzione di alimenti, in grado di produrre risultati positivi dimostrati a lungo termine su molteplici indicatori sociali, ambientali e finanziari.
  • L’agricoltura rigenerativa offre l’opportunità di attuare la decarbonizzazione e affrontare gli impatti e i rischi ambientali che interessano molteplici planetary boundaries, contribuendo a gettare le basi per un futuro resiliente dalle risorse limitate.
  • Le aziende che sostengono l’agricoltura rigenerativa dovranno valutare ogni contesto specifico per sviluppare una strategia che non solo affronti i vari impatti ambientali, come le emissioni di gas serra, il consumo di acqua e la perdita di biodiversità, ma che individui anche le priorità essenziali per ogni coltura e regione.
  • Le strategie di agricoltura rigenerativa messe in atto dalle aziende avranno successo se saranno incentrate sugli agricoltori.

Essendo il settore tra i maggiori responsabili del cambiamento climatico e che sfrutta più acqua a livello mondiale, nonché la principale causa del degrado dell’ecosistema globale e della perdita di biodiversità, l’agricoltura rappresenta un fattore chiave della crisi ambientale. 

Purtroppo, però, è anche l’ambito che ha più da perdere da questa situazione. 

Le aziende che includono agricoltura e uso del suolo nella loro supply chain stanno già sperimentando gli effetti di un clima che cambia. Temperature da record, uragani, incendi, inondazioni e altri eventi atmosferici stanno alterando la produttività dei terreni e la disponibilità di alcune colture, oltre a rendere il lavoro agricolo, già rischioso di per sé, ancora più pericoloso per i lavoratori. 

Ma il clima non costituisce l’unica minaccia ambientale per i nostri sistemi agricoli. Occorre tenere conto di altri fattori come lo stato di salute del suolo, il consumo idrico e l’inquinamento. 

Molte aziende hanno già stabilito strategie e obiettivi climatici, ma per ridurre al minimo l’esposizione ai rischi legati alla natura e salvaguardare le loro attività e i loro dipendenti di fronte a un futuro incerto, devono intensificare il loro impegno e intraprendere un’azione olistica.

L’agricoltura rigenerativa è l’approccio olistico e integrato alla coltivazione di cui le aziende hanno bisogno per affrontare molteplici rischi ambientali e sociali e superare le sfide della supply chain, riducendo al minimo i compromessi.

L’agricoltura rigenerativa

Coniato originariamente negli anni ’80 da Robert Rodale, il termine agricoltura rigenerativa designa le tradizioni agricole consolidate basate sulle conoscenze e sull’esperienza plurigenerazionale delle popolazioni indigene e dei coltivatori di tutto il mondo. 

Vi è una generale mancanza di consenso nell’industria alimentare e agricola sulla definizione del termine “agricoltura rigenerativa”. Ciò è dovuto in gran parte al fatto che questa non è un concetto immutabile, ma continua a evolversi tramite l’incontro tra le vecchie tecniche agricole e le innovazioni moderne, offrendo un’ampia serie di possibilità che consente agli agricoltori e alle imprese di adattarsi alle realtà tecniche ed economiche delle loro aziende e/o filiere. 

In generale, le definizioni di agricoltura rigenerativa si basano su pratiche (ad esempio senza lavorazione/a lavorazione ridotta del suolo (no/low till), colture di copertura, compost), principi (come la riduzione della perturbazione del suolo, mantenimento della copertura del suolo, mantenimento delle radici viventi, incremento della diversità vegetale e integrazione di bestiame) e risultati (ad esempio salute del terreno, qualità dell’acqua e biodiversità). È opportuno sottolineare che i pionieri di questo settore spesso considerano l’agricoltura rigenerativa non solo come un insieme di pratiche o principi, ma soprattutto come un mindset trasformativo che evidenzia un approccio olistico e sostenibile che abbraccia tutte le loro attività lavorative.

Sebbene i principi dell’agricoltura rigenerativa siano utili nell’orientamento di strategie sviluppate con gli agricoltori, le aziende dovrebbero adottare una definizione di agricoltura rigenerativa che enfatizzi un approccio olistico alla coltivazione con risultati positivi in relazione a più indicatori sociali e ambientali. Prendere in considerazione più indicatori all’interno dei confini del nostro ecosistema permetterà all’agricoltura rigenerativa di fungere da approccio essenziale per ripristinare la salute del pianeta e invertire gli effetti negativi legati all’agricoltura convenzionale.

Un approccio integrato per risolvere un problema complesso

Il contributo dell’agricoltura al cambiamento climatico è ormai ampiamente riconosciuto (l’IPCC stima che il 23% delle emissioni totali di gas serra di origine antropica derivi dall’agricoltura, dalla silvicoltura e da altri usi del suolo che vanno anche al di là delle infrastrutture agricole). E il numero crescente di prove che evidenziano i rischi comportati dalla crisi climatica alla produttività ha spronato le aziende agroalimentari ad agire. La riduzione delle emissioni rappresenta un passo (necessario) nella giusta direzione, ma un errore ricorrente che le aziende commettono nei loro sforzi contro la crisi climatica è quello di concentrarsi esclusivamente sulle emissioni di gas a effetto serra. Di conseguenza, vengono trascurati altri importanti fattori d’impatto ambientale e rischi legati alla natura.

Gli effetti dei sistemi alimentari e territoriali convenzionali vanno ben oltre il clima. La produzione agricola di tipo convenzionale ha svolto un ruolo importante nel superamento di almeno altri quattro planetary boundaries: il cambiamento del sistema territoriale, l’uso dell’acqua dolce (acqua verde), i flussi biogeochimici e l’integrità della biosfera.

L’agricoltura è una delle cause principali del superamento di diversi planetary boundaries, in quanto costituisce…

Tutto ciò lascia presagire grossi problemi per le aziende agroalimentari. I sistemi terrestri sono interconnessi con dinamiche mutali, per cui ciò che influisce su uno di essi può influire anche sugli altri. Il degrado del suolo, la perdita di biodiversità e i cambiamenti del ciclo dell’acqua, ad esempio, aggravano la crisi climatica e contemporaneamente ne sono intensificati. Limitarsi a una prospettiva basata alla sola quantificazione delle emissioni di gas a effetto serra, non solo compromette la capacità di un’azienda di affrontare efficacemente la crisi climatica, ma aumenta anche la sua esposizione ai rischi fisici e di transizione. I sistemi di produzione agroalimentare e di utilizzo territoriale generano di per sé ogni anno costi ambientali, sanitari e socio-economici latenti per circa 12.000 miliardi di dollari, una cifra che supera di gran lunga il valore della produzione globale del sistema.

Le aziende agroalimentari devono considerare dunque il quadro generale per ridurre efficacemente l’impatto ambientale, attenuare i rischi legati alla natura e adattarsi a un mondo che cambia. Mediante l’adozione di un approccio integrato, l’agricoltura rigenerativa offre uno strumento con cui affrontare gli impatti e i rischi ambientali che interessano diversi planetary boundaries e sviluppare resilienza in un futuro dalle risorse limitate. Ad esempio, è stato dimostrato che l’attuazione del principio della diversificazione “[migliora] la biodiversità, l’impollinazione, la lotta antiparassitaria, il ciclo dei nutrienti, la fertilità del suolo e la regolazione delle acque senza compromettere la resa.”

L’adozione di un approccio multicriterio può sembrare dispendiosa in termini di risorse e di tempo. Tuttavia, le valutazioni preliminari volte a determinare il grado di rilevanza delle problematiche per un determinato sistema (ad esempio, l’acqua nelle regioni soggette a siccità o il cambiamento di destinazione d’uso dei terreni nelle regioni a disboscamento intensivo) e l’utilizzo delle risorse esistenti per ottenere una visione d’insieme più chiara possono consentire una prioritizzazione strategica a breve termine tra gli indicatori. Non limitando la prospettiva alle emissioni di carbonio, le aziende potranno destinare i mezzi disponibili alla tutela e al ripristino delle risorse naturali più importanti per ogni segmento della supply chain.

Mantenere i soggetti più vulnerabili al centro della propria strategia

La scelta di un approccio top-down nella promozione dell’agricoltura rigenerativa può rallentarne l’effettiva attuazione e portare a un uso non oculato delle risorse. I coltivatori e le comunità rurali devono essere al centro della strategia aziendale basata sull’agricoltura rigenerativa.

I coltivatori sono preoccupati per i rischi di perdite a breve termine e di crescente incertezza finanziaria che potrebbero sorgere nella fase di transizione dalle pratiche convenzionali a metodi rigenerativi. Le aziende hanno dunque la possibilità irrinunciabile di fornire sostegno finanziario agli agricoltori, così da contribuire a mitigare o condividere l’onere di tale rischio, senza rinunciare all’’inestimabile conoscenza che gli agricoltori hanno delle loro terre, che spesso sono tramandate di generazione in generazione con il relativo bagaglio di competenze settoriali.  Le strategie sviluppate in maniera congiunta a livello di azienda agricola stabiliranno partnership durature lungo tutta la supply chain, volte a mitigare o distribuire tali rischi per trasformare con successo un sistema agricolo dal basso verso l’alto.  

Le aziende dovranno adottare accordi di partnership innovativi capaci di sfidare i contratti a breve termine e le supply chain non tracciabili. E questo non solo per sostenere la transizione, ma anche per incoraggiare gli agricoltori nella ricerca continua delle soluzioni migliori per la loro azienda agricola e la rigenerazione delle risorse naturali. Per dare più sicurezza in questa fase di transizione, il sostegno finanziario deve essere integrato da formazione ed esempi locali, per dare fiducia ai coltivatori nella fase di transizione verso un’agricoltura rigenerativa. Le aziende hanno la possibilità di incrementare la partecipazione dei coltivatori agevolando il tutoraggio da agricoltore ad agricoltore e sfruttando sia la scienza che le conoscenze autoctone e locali per sviluppare linee guida e una formazione adeguata. 

Le aziende dovrebbero inoltre esplorare in maniera più approfondita per identificare le le comunità maggiormente vulnerabili ed emarginate all’interno delle supply chain (ad esempio le comunità rurali che vivono in una situazione climatica instabile in cui la temperatura media annua non rientra nell’intervallo compreso tra 11 e 15 °C circa della nicchia ambientale umana, i piccoli agricoltori azionisti, i lavoratori agricoli e coloro che sono storicamente emarginati dal punto di vista razziale). Una recente pubblicazione basata sul quadro dei planetary boundaries volta a riconoscere i limiti sicuri e giusti per il nostro sistema Terra ha rilevato l’esigenza di stabilire confini ancora più severi per ridurre al minimo i danni significativi per gli esseri umani, considerando le generazioni attuali e future in diversi Paesi e comunità. 

La trasformazione delle supply chain in catene inclusive e sostenibili da un punto di vista ambientale richiederà tempo a causa dei cambiamenti comportamentali e culturali che essa comporta, ma è essenziale per il successo a lungo termine dell’industria agroalimentare e delle comunità che la sostengono.

Finanziare la transizione: un solido business case oltre che un imperativo logistico

Naturalmente, per una transizione dalle aziende agricole convenzionali a pratiche rigenerative occorrono fondi, e i costi iniziali necessari a finanziare la conversione possono rappresentare un ostacolo per i coltivatori, molti dei quali si trovano già ad affrontare difficoltà economiche. Per garantire l’adozione diffusa dell’agricoltura rigenerativa, le aziende svolgono un ruolo fondamentale nel finanziamento di questa transizione. E le motivazioni economiche ci sono eccome: secondo una recente analisi di BCG, le aziende che applicano l’agricoltura rigenerativa potrebbero ottenere “una redditività superiore pari a un valore compreso tra il 70% e il 120%, nonché un utile sul capitale investito tra il 15% e il 25% nell’arco di 10 anni”.*

Inoltre, una volta consolidata, l’agricoltura rigenerativa richiede interventi di sostegno molto meno onerosi. Ad esempio, i suoi effetti positivi sulla biodiversità sono fondamentali per il controllo dei parassiti e per l’impollinazione, con un conseguente incremento nel volume dei raccolti e una riduzione delle spese legate ai pesticidi. Attività come le colture di copertura e la rotazione colturale possono ripristinare la salute del suolo, richiedendo meno adeguamenti e un minor impiego di fertilizzanti e ammendanti. 

Le colture di copertura possono anche contribuire a ottimizzare il consumo idrico, riducendo la temperatura del suolo e diminuendo l’evaporazione. Inoltre, un suolo più sano e pacciamato è in grado di trattenere più acqua. Le pratiche rigenerative possono quindi salvaguardare i coltivatori dall’aumento dei costi idrici, in particolare nelle aree carenti d’acqua a causa della siccità e della perdita di falde acquifere

Inoltre, i consumatori stanno acquisendo sempre maggiore consapevolezza sull’impatto ambientale dei loro acquisti. Numerosi studi hanno rilevato che i consumatori cercano prodotti più sostenibili. Se saranno in grado di illustrare con precisione e chiarezza i loro meriti ambientali, le aziende potranno trarre grandi vantaggi da questo tipo di trasparenza. 

Allineare il business all’agricoltura rigenerativa

1. Costruire e sviluppare la strategia partendo da una base solida

Si consiglia di partire dall’identificazione dei principali punti critici, stilando un inventario dei gas serra abbinato a una valutazione dei rischi e dell’impatto sulla natura. Con queste informazioni, le aziende dovrebbero poi iniziare a coinvolgere i partner della propria catena del valore per raccogliere dati specifici sulle forniture, dando priorità ai prodotti, acquisti e materiali che hanno il maggiore impatto. Le valutazioni multi-indicatore a livello di azienda agricola offrono l’opportunità di confrontarsi con i fornitori in merito alle sfide e alle opportunità specifiche dei loro sistemi agricoli, del clima locale e del territorio per ridurre gli impatti. Ma anche di capire quali indicatori vengono già misurati in quella zona, così da informare chi si occupa di gestire le operazioni agricole. Man mano che le aziende tracciano i progressi compiuti nel corso degli anni, dovrebbero continuare ad ampliare la loro base di riferimento, ottimizzando ulteriormente gli indicatori misurati e monitorati in base alla rilevanza per la coltura o la regione, come ad esempio l’impatto idrico.

2. Definire obiettivi di miglioramento della catena del valore   

Oltre a capire meglio le fonti di impatto, le aziende dovrebbero definire gli obiettivi di riduzione degli effetti ambientali e continuare a svilupparli mano a mano che l’impatto viene aggiornato. La guideline per i settori che si basano su foreste, terreni e agricoltura (Forest, Land and Agriculture Guidance) della Science Based Target initiative (SBTi) supporta nella definizione degli obiettivi climatici quelle aziende le cui catene del valore dipendono in larga misura dall’agricoltura. Analogamente, il Science Based Targets for Nature (SBTN) è lo standard usato per misurare l’azione aziendale in relazione ai confini planetari al di là dell’impronta di carbonio. Quando un’azienda si batte per questi obiettivi all’interno della catena del valore, acquisisce un’ulteriore opportunità per capire quali sono i rischi e gli ostacoli che impediscono ai suoi partner della supply chain di raggiungere questi traguardi e quali risorse possono servire per mitigare i rischi. 

3. Trasformare la propria catena del valore per facilitare l’adozione dell’agricoltura rigenerativa 

Gli sforzi messi in campo per misurare l’impatto e definire gli obiettivi ambientali consentono alle aziende di stabilire i canali di comunicazione necessari per sviluppare una strategia congiunta con i partner della catena del valore. Stabilire degli obiettivi non è sufficiente per realizzare una trasformazione sostenibile. Le aziende devono investire in strategie di intervento specifiche al contesto delle aree chiave di approvvigionamento. 

Avvicinarsi ai coltivatori, ai fornitori e agli altri stakeholder su tutta la supply chain riconoscendoli come partner determinanti nel processo di trasformazione stimolerà un impegno più produttivo, il quale a sua volta condurrà con più probabilità a risultati positivi.Le aziende potrebbero espandere strategicamente le loro operazioni commerciali per consentire questo livello di impegno nella catena di approvvigionamento. Ciò comprende investimenti nella ricerca e nella creazione di gruppi di lavoro multidisciplinari che includano scienziati, coltivatori e membri delle comunità interessate, al fine di rivalutare modelli di business che giustifichino i costi di transizione. Le aziende dovrebbero inoltre realizzare campagne di marketing credibili, così da generare una domanda di prodotti più sostenibili.

 Un trionfo per l’umanità, il pianeta e l’economia

Se applicata in modo ponderato, l’agricoltura rigenerativa può portare benefici a tutti gli aspetti della “triple bottom line”. Che la si consideri una prassi o una mentalità, essa non solo offre un enorme potenziale per affrontare le molteplici sfide ambientali nell’interazione tra i nostri sistemi agricoli e la Natura, ma può anche rafforzare la resilienza della supply chain, fungere da efficace pratica di sostenibilità sociale, ridurre i costi a lungo termine e fornire un vantaggio competitivo cruciale.

*Nota: i risultati possono variare a seconda delle colture e delle regioni. 

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Degrado del suolo + desertificazione: non affrontare i rischi legati alla Natura lascerà le imprese a bocca asciutta

desertificazione e degrado del suolo
desertificazione e degrado del suolo

Interruzioni nella supply chain, perdita di capitale e aumento delle spese operative. Sono solo alcune delle possibili ricadute che la perpetuazione degli attuali modelli di uso del suolo potrebbe avere sulle imprese.

In breve:

  • alle aziende serve che il suolo sia produttivo, ma le attività umane e la crisi climatica stanno degradando il terreno e provocando siccità a livelli senza precedenti, compromettendone la capacità di sostenere le colture, il bestiame e la fauna selvatica, nonché di fornire quei preziosi servizi ecosistemici su cui le imprese fanno affidamento.

  • Il degrado del suolo ha conseguenze disastrose per le imprese di tutti i settori, in tutte le fasi della catena del valore, e mette a repentaglio il loro valore economico. Ogni anno si registrano perdite di servizi ecosistemici pari a 20.000 miliardi di dollari a causa dei cambiamenti di destinazione nell’uso del suolo e perdite pari a 11.000 miliardi di dollari a causa del suo degrado.

  • Degrado del suolo e desertificazione generano rischi fisici, normativi, legali, di reputazione e di mercato per le aziende, anche per quelle la cui interdipendenza dal suolo è meno esplicita. Se gli attuali modelli di uso del suolo continueranno a perpetuarsi, le perdite di capitale, l’aumento delle spese operative e i danni al marchio saranno solo alcune delle conseguenze con cui le aziende dovranno fare i conti.

  • Il degrado del suolo e i suoi effetti a cascata sugli altri sistemi terrestri possono anche impedire alle imprese di progredire verso gli obiettivi legati a biodiversità, clima e acqua.

  • Per guidare la transizione nell’uso del suolo, le aziende devono: 1) valutare e comprendere il proprio impatto e le proprie interdipendenze; 2) definire strategie ambientali integrate; 3) collaborare con i vari attori lungo l’intera catena del valore per promuovere pratiche di uso sostenibile del suolo e 4) sostenere gli sforzi politici e normativi.

La desertificazione è spesso considerata un problema che riguarda in primis le aree desertiche, sebbene sia in realtà una crisi invisibile con una portata più ampia di quanto la maggior parte delle aziende creda, che ha conseguenze molto significative per le imprese e la stabilità della global economy nel suo complesso.

Alle aziende serve un suolo produttivo.

Le attività umane (non ultime le pratiche non sostenibili di gestione del suolo) e la crisi climatica, tuttavia, stanno provocando desertificazione, degrado del suolo e siccità a livelli ineguagliati, compromettendo così la capacità del terreno di sostenere le colture, il bestiame e la fauna selvatica, nonché di fornire quei preziosi servizi ecosistemici su cui le persone (e le imprese) fanno affidamento.

Contrastare il degrado del suolo è fondamentale per la continuità del business, eppure numerose organizzazioni si stanno incamminando in una direzione del tutto sbagliata.

Il degrado del suolo aggrava, ed è incrementato da, altre sfide ambientali, tra cui la perdita di biodiversità, la scarsità idrica e la crisi climatica. Numerose aziende, non riconoscendo con chiarezza i nessi reciproci fra questi punti chiavei, adottano un approccio “a compartimenti stagni” per risolverli.

Il degrado del suolo, nondimeno, è una questione che coinvolge trasversalmente più ambiti e pertanto per contrastarlo le aziende devono adottare un approccio integrato basato sul concetto di planetary boundaries.

A seguire vedremo nel dettaglio che cosa siano esattamente il degrado del suolo e la desertificazione, in che misura siano causati e inaspriscano altre sfide ambientali, quale impatto abbiano sulle aziende e come queste possono agire per salvaguardare il proprio futuro.

Cosa sono desertificazione e degrado del suolo

La desertificazione è una tipologia di degrado del suolo tipica delle zone in cui l’acqua scarseggia, che riduce la produttività biologica dei terreni fertili e, di conseguenza, anche la loro produttività economica. Questo tipo di degrado contempla un decremento qualitativo del suolo, oltre ad un declino delle risorse idriche, della vegetazione e di una vasta gamma di organismi (inclusi quelli responsabili dei servizi ecosistemici del suolo).  

Nonostante il fenomeno di degrado del suolo sia attestato in ogni parte del mondo, le zone aride, che costituiscono circa il 40% del suolo terrestre e ospitano il 38% della popolazione mondiale, sono particolarmente vulnerabili a questo problema a causa delle temperature e delle precipitazioni estremamente variabili, degli ecosistemi a bassa produttività e della scarsa fertilità del suolo.  

Definizioni

Degrado del suolo: la riduzione o la perdita della produttività biologica o economica del suolo, tra cui rientra la perdita di biodiversità e di funzioni/servizi ecosistemici dovuta a processi causati dall’uomo

Desertificazione: il degrado del suolo nelle zone aride causato dalle variazioni climatiche e dalle attività umane

Le modalità principali di degrado del suolo sono molteplici:

  • Declino della vegetazione
  • Salinizzazione
  • Acidificazione/decremento della fertilità
  • Perdita di nutrienti (ad esempio azoto, fosforo e potassio)
  • Compattazione del terreno
  • Erosione dovuta ad acqua e vento

Un problema sempre più diffuso

I concetti di degrado del suolo, desertificazione e siccità sono spesso associati ad aree geografiche come l’Africa subsahariana, sebbene questi problemi riguardino ogni angolo del pianeta, compresi la parte occidentale del Nord America, il Medio Oriente, l’Asia Centrale e l’Europa (Bulgaria, Cipro, Croazia, Grecia, Italia, Lettonia, Malta, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Ungheria hanno indicato di essere tutti interessati dalla desertificazione). 

In totale, oltre il 75% del suolo terrestre è già in stato di degrado, compreso il 25-35% delle zone aride. Entro il 2050 questa percentuale potrebbe raggiungere il 90%, se non si adotteranno tempestivamente misure ambiziose.

Il degrado del suolo è determinato da fattori locali che possono variare da un’area geografica all’altra, ma le sue implicazioni (così come quelle della desertificazione) hanno una portata globale. La crisi climatica può amplificare gli effetti a livello locale e introdurre un’ulteriore degrado tramite eventi estremi (ad esempio variazioni nelle precipitazioni, siccità, incendi ecc.). Tuttavia, anche la desertificazione e il degrado del suolo influenzano a loro volta la crisi climatica, in quanto alterano le funzioni di regolazione e approvvigionamento degli ecosistemi per via del loro impatto su umidità superficiale (e sul ciclo dell’acqua nel suo complesso), copertura vegetale, aerosol di sabbia e polvere, oltre che sui flussi di gas serra. Diventando sempre più aridi, i terreni sono sempre meno in grado di trattenere l’anidride carbonica atmosferica e possono di conseguenza diventare fonte di gas serra, rilasciando CO2 e biossido di azoto (NO2) nell’atmosfera. Anche i fattori alla base del degrado (ad esempio deforestazione, pascoli intensivi, incendi ecc.) disperdono CO2 nell’atmosfera.

Cause principali

Le attività umane (gestione non sostenibile del suolo e delle risorse) e le variazioni climatiche sono le due cause principali del degrado del terreno e della desertificazione.  

Gestione non sostenibile del suolo e delle risorse

Le attività umane associate al degrado del terreno sono da ricondurre a pratiche non sostenibili di uso del suolo e di gestione delle risorse, spesso derivanti da più cause sottostanti, tra cui pressioni economiche, demografiche, tecnologiche, istituzionali e culturali.

Pratiche non sostenibili di uso del suolo e di gestione delle risorse collegate al degrado del terreno

  • Deforestazione
  • Conversione del suolo e rimozione della copertura vegetale naturale
  • Coltivazione intensiva
  • Pascolo intensivo
  • Uso eccessivo di input chimici (ad esempio fertilizzanti sintetici)
  • Utilizzo non sostenibile delle risorse idriche (ad esempio uso eccessivo e contaminazione)
  • Pratiche di irrigazione inadeguate
  • Incendi antropogenici
  • Urbanizzazione

Una delle sfide principali è rappresentata dal fatto queste pratiche sono profondamente radicate all’interno della supply chain. Le aziende con vari livelli di fornitura e un basso grado di tracciabilità potrebbero non essere nemmeno consapevoli dell’esistenza del degrado o di dove si stia verificando. Per affrontare il degrado del suolo (e gli effetti a esso riconducibili su acqua, biodiversità, clima ecc.) le aziende devono migliorare la tracciabilità della supply chain in modo da comprendere cosa accade a monte e da entrare in contatto e collaborare con i vari attori della supply chain per stimolare un cambiamento.   

Crisi climatica

La crisi climatica amplifica l’impatto delle cause dirette di degrado del suolo (ad esempio l’erosione del suolo dovuta a eventi meteorologici estremi, l’aumento del rischio di incendi boschivi e i cambiamenti nella distribuzione di specie invasive, parassiti e agenti patogeni) e può estendere le zone aride a rischio di desertificazione. Questi cambiamenti possono aggravare problemi sociali come povertà e migrazione forzata, che possono a loro volta portare a un ulteriore degrado del suolo.  

Degrado del suolo e desertificazione, crisi climatica e perdita di biodiversità sono inoltre collegati fra loro da cicli di retroazione. I cambiamenti nelle proprietà chimiche e idrologiche del suolo legati al degrado indotto dalla crisi climatica intensificano la perdita di biodiversità, sia in superficie che nel sottosuolo: un aspetto che a sua volta provoca ulteriori alterazioni della fertilità e dell’erosione del suolo che favoriscono la desertificazione.

collegamento fra degrado del suolo, crisi climatica e biodiversità

Affrontare il degrado del suolo e la desertificazione è un imperativo per le aziende.

Il degrado del suolo ha conseguenze disastrose per le imprese di tutti i settori, in tutte le fasi della filiera, e mette a repentaglio il loro valore economico. Tra il 1997 e il 2011, si sono registrate perdite di servizi ecosistemici pari a 20.000 miliardi di dollari all’anno a causa dei cambiamenti nell’uso del suolo e perdite pari a 11.000 miliardi di dollari a causa del degrado del suolo: un importo che corrisponde al triplo del valore globale di mercato dei prodotti agricoli.

Interruzioni nella supply chain, perdita di capitale e aumento delle spese operative: queste sono solo alcune delle possibili ricadute che la perpetuazione degli attuali modelli di uso del suolo potrebbe avere sulle imprese.

Degrado del suolo e desertificazione creano rischi per le aziende in tre modi: 

Dipendenze dalla Natura

In molti settori, la Natura è fondamentale per la continuità del business. Tutte le aziende dipendono in una certa misura dalla Natura, in termini di materie prime o servizi ecosistemici. I cambiamenti legati al degrado del suolo che interessano la chimica, la fertilità e l’idrologia dei terreni possono influire sui raccolti e sulla qualità delle colture, oltre a minacciare la disponibilità e la sicurezza a lungo termine dei prodotti. Il suolo e le condizioni locali possono diventare inadatti alla produzione. Le dipendenze variano a seconda del settore e il problema colpisce soprattutto le imprese che dipendono direttamente dal suolo per ottenere le risorse o i servizi ecosistemici necessari per le loro operazioni dirette e la loro supply chain. Tuttavia, le conseguenze possono essere significative anche per le imprese dei settori secondario e terziario, le cui dipendenze sono in apparenza meno esplicite.

  • Potenziali effetti: chiusura delle operazioni, disagi nella supply chain, perdita di capitale, aumento dei costi operativi, aumento dei costi di produzione, riduzione o interruzione della capacità produttiva, aumento dei premi assicurativi o riduzione della disponibilità di assicurazioni sui beni in luoghi ad alto rischio, disagi per le vendite

Impatto sulla Natura

Degrado del suolo e desertificazione stanno creando crescenti rischi per le aziende, dal punto di vista normativo, legale, della reputazione e del mercato. Dovendo districarsi fra la crescente domanda di beni prodotti in modo sostenibile da parte dei consumatori, le pressioni degli stakeholder e l’ondata di cambiamenti normativi, come il Regolamento UE sulla deforestazione, per le aziende la necessità di agire per ridurre l’impatto ambientale sulla Natura si fa sempre più impellente.

  • Potenziali effetti: multe e sanzioni, controversie legali, danni al marchio, aumento dei costi per la conformità, diminuzione del valore per gli azionisti, riduzione della domanda di prodotti e servizi

Effetti di degrado del suolo e desertificazione sulla società

Le aziende non sono le uniche a dipendere dalla Natura per ottenere risorse e servizi ecosistemici: acqua dolce, aria pulita, stabilità del clima e salute del suolo sono fondamentali per tutta la società. Di conseguenza, il degrado del suolo e il suo impatto su acqua, biodiversità, clima ecc. possono avere un effetto destabilizzante sulla società, con implicazioni per la salute (ad esempio inquinamento dell’aria, sicurezza alimentare, qualità dell’acqua ecc.), i mezzi di sostentamento, le relazioni commerciali e i conflitti geopolitici.

  • Potenziali effetti: disagi per la forza lavoro, conflitti, disuguaglianza di genere, aumento della povertà, migrazione forzata

Se non affronteranno il degrado del suolo, le aziende sono destinate a fallire sotto ogni aspetto. Eppure, le misure adottate finora dalle imprese si sono dimostrate insufficienti. Molte di esse non comprendono come i propri prodotti o le proprie modalità operative possano contribuire al degrado del suolo, né più in generale quale sia il legame fra business e crisi climatica, degrado del suolo, perdita di biodiversità e scarsità idrica.

Questa mancanza di consapevolezza impedisce loro di percepire il valore di una gestione sostenibile del suolo e l’opportunità di investire in essa. Tuttavia, i vantaggi offerti dall’investire negli sforzi di riduzione dell’impatto e delle dipendenze superano di gran lunga i costi della mancata adozione di contromisure. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione stima che per ogni dollaro speso per ripristinare il suolo degradato si ottengano vantaggi economici pari a 7-30 dollari.

Per le aziende è giunto il momento di guardare alle opportunità a lungo termine offerte dal mettere al primo posto la gestione sostenibile del suolo.

Soluzioni

  • Valutare e comprendere interdipendenze ed effetti non solo sul suolo, ma anche su acqua, biodiversità e servizi ecosistemici, per scoprire quali commodities dell’azienda presentano i rischi più elevati da un punto di vista ambientale: i risultati potrebbero essere sorprendenti. Molte imprese non comprendono il legame fra acqua e servizi ecosistemici; sono consapevoli di come utilizzano il suolo, ma non di come tali attività agiscano sul ciclo dell’acqua e sulla biodiversità. La Science Based Targets Network (SBTN) ha stilato nuove linee guida per aiutare le aziende a identificare le loro dipendenze principali e l’impatto delle loro attività sulla Natura, oltre che a mappare e dare priorità a rischi e opportunità.
  • Definire una strategia ambientale integrata e science-based target per gestire gli aspetti climatici (incluse le emissioni FLAG), la biodiversità, l’acqua dolce e l’uso del suolo riducendo al minimo i compromessi.  Queste sfide sono interconnesse e non possono essere affrontate con un approccio a compartimenti stagni: ciò che interessa l’una ha effetti anche sulle altre. Insieme, le aziende possono prendere decisioni basate su necessità ed efficacia, piuttosto che su percezioni soggettive, per accelerare il raggiungimento degli obiettivi e mitigare i rischi principali.
  • Stringere partnership con attori lungo tutta la catena del valore, per promuovere pratiche di gestione del suolo più sostenibili, in grado di evitare, ridurre e invertire il processo di degrado. Le aziende devono eliminare gli incentivi che promuovono il degrado, collaborando con le comunità locali e indigene per attuare iniziative di transizione nell’uso del suolo e salvaguardare i diritti su di esso.
  • Promuovere l’intervento mostrando sostegno alle iniziative politiche e alle normative governative che mirano a diffondere pratiche commerciali più sostenibili, richiedendo alle imprese di integrare il rispetto della Natura nei propri processi decisionali.

L’uso non sostenibile del suolo sta minacciando il futuro del pianeta, delle persone e dell’economia. Le aziende hanno la responsabilità e il legittimo interesse di contrastare il degrado del terreno, promuovendo la transizione verso un uso del suolo più sostenibile. 

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Cultura organizzativa: l’anello mancante che rompe o fa quadrare il cerchio delle aspirazioni di sostenibilità

organizational culture
organizational culture

Per rendere la sostenibilità parte integrante e componente intrinseca delle attività economiche, le aziende hanno il compito di integrare una maggiore apertura al cambiamento dal punto di vista della cultura organizzativa e delle strategie commerciali.

In breve:

  • Costruire una solida cultura della sostenibilità rappresenta un requisito essenziale per concretizzare una trasformazione verso un business più sostenibile e operare nel rispetto dei planetary boundaries.
  • Quando, come succede per molte aziende, la cultura organizzativa è tuttavia restia al cambiamento, le probabilità che gli sforzi intrapresi in ambito di sostenibilità siano efficaci o riescano a produrre miglioramenti decisivi diventano estremamente scarse. 
  • Creare resilienza per far fronte alla crisi ambientale significa abbracciare il cambiamento. Per rendere la sostenibilità uno dei pilastri centrali delle attività economiche, le aziende hanno il compito di integrare una maggiore apertura al cambiamento dal punto di vista della cultura organizzativa e delle strategie commerciali. 
  • Nel tentativo di promuovere cambiamenti concreti nella cultura aziendale, i dirigenti devono innanzitutto esaminare e definire la cultura esistente, riconoscendone i principali elementi responsabili del fallimento di iniziative orientate al cambiamento.
  • I vertici aziendali devono dimostrare che la sostenibilità ricopre un ruolo prioritario al pari del successo finanziario, dell’efficienza operativa, della salute, della sicurezza e di molti altri aspetti essenziali per l’azienda. E devono farlo con misure volte a diffondere gli obiettivi di sostenibilità su ampia scala e trasversalmente nell’intera organizzazione, offrendo corsi di formazione e perfezionamento, integrando la sostenibilità nel processo decisionale e assicurandosi che tutti i membri dell’organizzazione abbiano ben chiaro il contributo che possono apportare all’agenda di sostenibilità.

Questo è il primo di una serie di articoli che esplora il ruolo della cultura organizzativa nel determinare il successo o il fallimento delle ambizioni di sostenibilità in ambito aziendale.

Siamo ormai vicini alla resa dei conti: il termine per dimezzare le emissioni entro il 2030, infatti, diventa sempre più incombente e le aziende stanno accelerando il passo per limitare il riscaldamento globale a 1,5˚C. In molte, tuttavia, hanno ben presto realizzato che le strategie di sostenibilità e gli obiettivi basati sui dati scientifici, per quanto ambiziosi, da soli non bastano per mettere in atto un cambiamento significativo.

Investimenti insufficienti, organizzazione a compartimenti stagni, cultura del cambiamento a piccoli passi, eccessiva cautela, pratiche commerciali ormai datate e aspettative finanziarie pongono un freno rilevante alle aziende. Questi fattori sono tuttisintomatici di una cultura aziendale restia al cambiamento e costituiscono la prova tangibile che, quando si parla di trasformazione sostenibile, la cultura organizzativa ha un suo peso, tutt’altro che trascurabile. La cultura aziendale fornisce un esempio per i comportamenti, guida i processi e ha un grande impatto sulla motivazione dei dipendenti.

Se la cultura organizzativa su cui si basa la vostra azienda è in contrasto con gli obiettivi che state cercando di raggiungere, sarà impossibile realizzare i cambiamenti necessari per prepararla al futuro e operare nel rispetto dei planetary boundaries.

Cultura aziendale: un corso accelerato

La cultura è un motore talmente potente da rendere inermi anche i leader più capaci. In molti, spesso, la ignorano del tutto oppure la percepiscono come un fattore al di sopra del loro controllo, quindi da non considerare nelle loro attività quotidiane. Se i suoi aspetti negativi risultano notoriamente difficili da cambiare, quelli positivi sono invece terribilmente delicati. Ma di cosa stiamo parlando nel concreto?

La cultura organizzativa instaura e rafforza le aspettative nei confronti dei valori di un’azienda e fornisce un orientamento concreto per il suo operato. Inoltre, ne descrive le convinzioni, i valori, le aspettative e le norme di comportamento alla base degli orientamenti e degli obiettivi rilevanti per l’organizzazione.

Paragonata a un iceberg da Edward T. Hall nel noto esempio tratto dal suo libro Beyond Culture, la cultura organizzativa è composta da un livello visibile e da un sostrato invisibile. Basta una ricerca, neanche troppo approfondita, per trovare centinaia e centinaia di esempi sulla falsariga di questo modello. In sostanza, essa è il risultato di una componente immediatamente osservabile (la cultura superficiale) e di una componente più interna (la cultura profonda).

Cultura superficiale (10%): politiche, procedure documentate, codice di abbigliamento, espressione del marchio, struttura organizzativa, benefit, tecnologie, organizzazione dell’ufficio ecc.

Cultura profonda (90%): equilibrio tra lavoro e vita privata, risposta al cambiamento, esperienza di assunzione, avversione al rischio, esperienza per le donne e le persone di colore, pregiudizi culturali, comunicazione (formale/informale e terminologia condivisa), livelli di autonomia, feedback e tutta una serie di altre “convenzioni non scritte”

Non è difficile intuire che la cultura superficiale è anche la componente più incline al cambiamento, che nella maggior parte dei casi risulta semplice e non comporta particolari lungaggini. Cambiare la cultura profonda, invece, è tutto un altro paio di maniche. Può trattarsi infatti di un processo arduo e complesso. 

Considerate ad esempio un processo di riorganizzazione in cui la persona interessata, che ha un’esperienza comprovata per un particolare procedimento, passa a un ruolo completamente diverso. Per quanto tempo ancora questa persona si occuperà di questioni relative al suo precedente incarico? Probabilmente, molto più a lungo del tempo di transizione previsto. Le culture sono caratterizzate da una memoria ben radicata e una natura restia al cambiamento; ma in questi casi, è l’angolazione a fare la differenza.

Migliorare la cultura della propria azienda non sarà sicuramente un compito semplice, ma nemmeno impossibile. In questo contesto, scendere a compromessi non è mai un’opzione se si vuole tener fede ai propri obiettivi di sostenibilità.

La cultura della sostenibilità: che cos’è e come si presenta?

All’interno di un’organizzazione, la cultura della sostenibilità corrisponde all’idea che i dipendenti hanno in merito agli obiettivi, ai valori, alle convinzioni e alle aspettative dell’azienda in materia di sostenibilità. Che ne siate coscienti o meno, anche la vostra azienda ne ha una. La sua espressione, che può essere più o meno evidente, dipende da una serie di fattori: dagli atteggiamenti dei dirigenti nei confronti della presenza (o della mancanza) di meccanismi di responsabilità al modo in cui i dipendenti percepiscono il loro ruolo di agenti attivi nel processo di trasformazione.

Una solida cultura della sostenibilità si basa sulla convinzione collettiva che la sostenibilità è un imperativo e i dipendenti adottano comportamenti volti a sostenerla. 

  • L’azienda fa affidamento su una chiara vision di sostenibilità che permea l’intera organizzazione e costituisce fonte di ispirazione nonché motore di tutte le azioni, gli obiettivi, le strategie e i valori che portano a compimento tale visione.
  • La presenza di una vision, una strategia e obiettivi chiari comunica ai dipendenti, indipendentemente dal loro ruolo nell’azienda, che la sostenibilità ricopre un ruolo prioritario al pari del successo finanziario, dell’efficienza operativa, della salute, della sicurezza e di molti altri aspetti essenziali per l’azienda. Ciò significa che non può essere la prima voce di risparmio quando c’è da tirare la cinghia né il primo punto in agenda da depennare per facilitare il raggiungimento di altri obiettivi.
  • In quanto priorità, la sostenibilità è facilmente integrata nel processo decisionale a tutti i livelli ed esercita la sua influenza su tutti gli ambiti aziendali, dalla strategia commerciale ai KPI, fino agli obiettivi di performance dell’intera organizzazione. 
  • Tutti i collaboratori dimostrano una motivazione concreta e comprende appieno il proprio contributo significativo per fare passi avanti all’interno del programma di sostenibilità dell’organizzazione.
  • La sostenibilità rappresenta una componente chiave nei processi di onboarding nonché di learning and development.

Una cultura della sostenibilità debole, al contrario, è percepita come irrilevante e corollaria

  • I senior manager potrebbero negare l’esistenza del cambiamento climatico.
  • Non è presente né una vision né una strategia di sostenibilità. 
  • Il team di sostenibilità potrebbe essere isolato, non ricevere i finanziamenti necessari e risultare generalmente frainteso.
  • Potrebbe essere diffuso un senso generale di mancanza di responsabilità e di capacità tra i vari team, che non affrontano questioni legate alla sostenibilità.
  • I dipendenti non comprendono l’importanza della sostenibilità per l’azienda e, in alcuni casi, potrebbero essere addirittura all’oscuro di un’eventuale strategia di sostenibilità in essere.

Una forte cultura della sostenibilità crea i presupposti per la trasformazione. Le culture più deboli, invece, paralizzano le aziende e le costringono a mantenere lo status quo.

Ma che cosa accade se è invece l’intera cultura aziendale, nel suo stato più elementare, a impedire la promozione di una cultura della sostenibilità robusta e solida? Che succede quando le culture organizzative reagiscono troppo lentamente al cambiamento, anche quando ce ne sarebbe una necessità estremamente impellente? 

Cambiare è possibile, ma in questi casi richiede una profonda introspezione e un’azione globale e rivoluzionaria.

Cultura del cambiamento: la base di ogni trasformazione

Per dirla con le parole del leggendario management consultant Peter Drucker: “La cultura si mangia la strategia a colazione”. Di certo non aveva tutti i torti. Per riuscire a implementare un cambiamento significativo, duraturo e necessario, il fattore di successo più determinante sono proprio le persone.

Molte organizzazioni denotano una forte resistenza al cambiamento, che contrastano solo quando quest’ultimo risulta inevitabile. Per questo motivo molte iniziative all’insegna della sostenibilità, sebbene sostenute da una strategia ambiziosa e fondata su dati scientifici, da strumenti all’avanguardia e da un chiaro piano d’azione, sono destinate a fallire o produrre solo miglioramenti di minore entità. Il mondo del business premia l’affidabilità, i processi e le consuetudini. Un certo livello di cambiamento è accettato (ad es. per conformarsi a nuove normative ambientali o evitare controversie su questioni legate al clima), ma i cambiamenti profondi, quelli audaci e rivoluzionari, risultano estremamente controversi e vengono spesso accolti con una buona dose di scetticismo.

Considerare la sostenibilità da una mera prospettiva di conformità è tutt’altro che ideale. Il fatto è questo: in un ambiente in continua evoluzione, e sempre più imprevedibile; le aziende devono ripensare i loro processi e abbandonare un approccio aziendale statico, con nessuna possibilità di funzionare all’interno di un sistema dinamico, dove il cambiamento rappresenta l’unica certezza.

Creare resilienza per far fronte alla crisi ambientale in atto significa abbracciare il cambiamento.

Quindi, per rendere la sostenibilità parte integrante e componente intrinseca delle attività economiche, le aziende hanno innanzitutto il compito di inglobare una maggiore apertura al cambiamento a livello di cultura organizzativa e strategia commerciale. Inoltre, devono coltivare la loro capacità interna di cambiamento, ad esempio mediante la formazione dei dipendenti.

Stabilire una priorità, senza tuttavia predisporre un ecosistema trasversale a tutte le funzioni aziendali a sostegno di tale priorità, è una misura senza buone prospettive di successo. Se, per esempio, la vostra cultura aziendale si basa sula competizione e il contributo dell’individuo è l’indicatore principale di successo, non aspettatevi che un approccio basato sulla collaborazione possa risultare efficace. Allo stesso modo, se nella gestione delle performance sono unicamente gli obiettivi finanziari a determinare le ricompense, gli obiettivi non finanziari potrebbero non essere presi sul serio o essere visti solo come un risultato di secondaria importanza.

Fare introspezione: un prerequisito essenziale per gestire il cambiamento

Avere un ideale va bene, ma quando si cerca di cambiare una cultura è necessario in prima battuta analizzare e definire con onestà la cultura già esistente. Forse la vostra organizzazione ha caratteristiche culturali che vi concedono già una posizione di vantaggio. Oppure avete bisogno di sradicare alcune abitudini e convinzioni di lunga data? 

Una questione che mette costantemente in crisi i dirigenti è che la percezione della loro cultura e la cultura reale sono spesso in contrasto tra di loro

In alcuni casi, essi ripongono troppa fiducia nelle public relations, mentre in altri casi, invece, sono troppo distanti per avere anche solo un’idea concreta delle attività operative. Questi fattori si manifestano in aziende di tutte le dimensioni. 

Anche se non è semplice, i leader devono fare attenzione e ricordarsi sempre che la loro percezione e le loro convinzioni non sono infallibili. Richiedere l’aiuto di un consulente per svolgere un audit culturale può ovviare a questo problema, sebbene si possano ottenere risultati anche tramite un’attenta riflessione su precedenti tentativi di iniziative interne che non hanno avuto successo. Le cause di fallimento rivelano spesso il vero spirito della cultura aziendale 

Prendiamo ad esempio le politiche di rientro al lavoro in presenza. La pandemia ha incentivato il lavoro a distanza per pura necessità, eppure molte aziende faticano a convincere i propri dipendenti a tornare in ufficio e in alcuni casi ci hanno rinunciato del tutto. Altre, invece, stanno cercando di adottare modelli ibridi. Il CEO potrebbe serbare un ricordo positivo della robusta cultura presenziale, ma i dipendenti presenti già prima del COVID-19 potrebbero vederla in maniera del tutto diversa.  Potrebbero avere vivo in mente il ricordo delle continue interruzioni, oppure di un open space progettato come spazio di co-working pieno di persone che lavorano in silenzio o, al contrario, con persone al telefono con colleghi di altri uffici. 

Tutti questi fattori esemplificano appieno la cultura aziendale reale. Ma allora sorge spontanea la domanda: dove ha sbagliato il CEO? Si trattava solamente di un buon proposito, anche se poco plausibile? Di un’intuizione sbagliata nel vedere l’intero team presente in ufficio? Oppure semplicemente di un’idea che si basava più che altro sugli eventi organizzati dopo il lavoro o su altre attività extralavorative? Tutte queste ipotesi potrebbero essere possibili, ma è importante rendersi conto del percepito delle persone. 

Un bravo leader sa bene che più si scalano i vertici dell’azienda, maggiore sarà la distanza con le realtà quotidiane dell’organizzazione e, di conseguenza, la necessità di una maggiore programmazione.

Anche se parte dall’alto, non può essere imposto

Quando le cose si mettono male, mettete in discussione l’importanza del risultato? Se, in quanto leader, la vostra risposta non lascia alcuno spazio a riflessioni, forse è il caso di fare un esame di coscienza per capire perché non siete poi così convinti. 

È importante rimanere con i piedi per terra: anche voi siete esseri umani e la paura può rappresentare un potente ostacolo che previene dall’impegnarsi davvero a cambiare. Ricordatevi sempre che quello che per voi non costituisce una priorità, non lo sarà neanche per il resto dell’organizzazione. 

E questo vale spesso per le questioni in materia di sostenibilità ambientale. Di base, le aziende hanno obiettivi di crescita e proprio questa caratteristica può risultare l’ostacolo principale al raggiungimento di pratiche aziendali più sostenibili. E così funziona anche per i compensi dei dirigenti, spesso perfino per tutte le tipologie di riconoscimento delle performance a livello aziendale. 

Anche se gli obiettivi non finanziari non sono determinanti sulla vostra busta paga, comportatevi come se il fallimento non fosse comunque un’opzione (e francamente, non lo è) e diffondete tale convinzione su ampia scala. 

Non possono esserci dubbi sul fatto che tali questioni siano di estrema rilevanza per il CEO e per i vertici, e questo a tutti i livelli dell’organizzazione. La passione, infatti, può essere contagiosa. Negli ultimi 50 anni questo aspetto è stato fondamentale per costruire le culture delle startup tecnologiche di maggior successo.  

Potremmo dibattere sulla complessità di questo processo, ma una cosa è certa: il cambiamento culturale va ben oltre l’intento di un leader. L’intera organizzazione deve agire di concerto. 

Il punto di partenza più logico è diffondere gli obiettivi a cascata. Dopodiché è fondamentale sviluppare una comprensione collettiva dell’obiettivo e della sua importanza, creando un modello in cui i dipendenti di tutti i livelli e funzioni possano dare il loro contributo. 

Quando la sostenibilità pervade tutti gli angoli dell’organizzazione, le persone sapranno che fate sul serio. 

Democratizzare il cambiamento

Come avviene per qualsiasi altra iniziativa, dalla DEI (diversity, equity & inclusion) agli standard professionali, sviluppare e istituire una formazione adeguata sui temi della sostenibilità ambientale è fondamentale. Infatti, non possiamo pretendere che le persone adottino nuovi modelli di comportamento senza comprenderne il contesto o il risultato auspicato. 

I dipendenti devono capire che cos’è la sostenibilità e in che modo si traduce concretamente per il loro ruolo specifico. La formazione consente loro di identificare tutte le misure possibile e i fattori che al contrario potrebbero rappresentare un ostacolo. 

Partite da un presupposto: la vostra organizzazione è “geneticamente” programmata per mantenere a tutti i costi lo status quo. Senza una scossa dall’esterno, rivalutare pratiche funzionanti e ben consolidate comporta sempre una buona dose di riluttanza. Tenete inoltre sempre a mente che le persone hanno spesso un’idea poco flessibile di cosa significhi avere successo nel loro ruolo. Per un responsabile degli acquisti che, nel corso dell’intero mandato, ha sempre cercato modi per risparmiare, abbracciare le pratiche di approvvigionamento sostenibile non sarà di certo una passeggiata. Il management intermedio deve avere a disposizione un margine di manovra più ampio. 

Analogamente, a livello gestionale è necessario adottare un approccio realistico. Non sarà infatti mai possibile implementare appieno iniziative di approvvigionamento sostenibile se il budget per gli acquisti non ha alcun tipo di margine per affrontarne i costi più elevati. Considerate queste questioni come sfide imprenditoriali da risolvere piuttosto che come beghe aziendali su cui incaponirsi. 

Per tutti i livelli dell’organizzazione è indispensabile un meccanismo finalizzato ad ascoltare e accogliere le preoccupazioni. Sebbene possa trattarsi di un comportamento di natura culturale, le spinte alla base hanno comunque un carattere sistemico. Per supportare il cambiamento c’è infatti bisogno di grande sinergia tra tutti gli ambiti: finanze, competenze, garanzie, sistemi, politiche e procedure devono infatti collaborare con questo obiettivo comune. 

Per concludere, i dipendenti devono abbracciare il loro ruolo proattivo e percepirlo come qualcosa di positivo, comprendendo tutti gli standard di riferimento sia a livello aziendale che, ove possibile, a livello funzionale. Inoltre, il cambiamento va coltivato con tante relazioni e con i riconoscimenti pubblici di tutte le iniziative di successo. 

La cultura aziendale è composta da tante sfaccettature diverse, e questo vale anche per tutte le fasi necessarie per poterla rendere una cultura che abbracci il cambiamento (anziché la sua sentenza di morte).

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Oro blu: affrontare le sfide idriche è la chiave per mitigare l’impatto e i rischi nel settore dei cosmetici e della cura della persona

water risk cosmetics
rischio idrico cosmetici

L’industria della cosmetica dipende fortemente dall’acqua ed è uno dei driver principali degli impatti sulle risorse idriche; ha quindi un ruolo fondamentale - e un interesse significativo - nel costruire un futuro in cui l’acqua sia sicura per tutti.

In sintesi:

  • La domanda supera l’offerta: le risorse idriche globali sono in pericolo.
  • Considerata la considerevole dipendenza sull’acqua in tutte le sue fasi, dalla produzione al consumo e lo smaltimento, il settore cosmetico si trova quindi in una situazione particolarmente vulnerabile.
  • Dare priorità ad azioni volte a risolvere i problemi di qualità e quantità dell’acqua (sia a monte che a valle) è cruciale per costruire una resilienza di lungo termine, tutelare il diritto umano dell’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari, evitare rischi reputazionali e mantenere un legame positivo con i consumatori.
  • Il tema del consumo idrico può essere affrontato nella fase di design e sviluppo del prodotto, focalizzandosi su innovazioni produttive che incoraggino i consumatori a usare meno acqua.
  • Per far fronte alle sfide idriche servono una nuova mentalità imprenditoriale e obiettivi ambiziosi, integrando la gestione responsabile dell’acqua con sforzi incentrati a contrastare gli impatti ambientali di più ampia portata. Infatti, l’acqua riveste un ruolo vitale in materia di mitigazione e adattamento agli effetti del cambiamento climatico, oltre che di contrasto rispetto alla perdita di biodiversità.

L’acqua è una risorsa naturale preziosissima: è la colonna portante della vita e della stabilità economica e sociale. Spesso, però, la diamo per scontata.

Nonostante la domanda globale di acqua superi già l’offerta, nei prossimi due decenni si prevede un ulteriore aumento del 20-30% rispetto ai livelli di consumo attuali. Secondo un report realizzato da BCG e WWF, entro il 2050 il 46% del PIL globale proverrà da regioni ad alto rischio idrico. Nel breve periodo, si stima che due terzi della popolazione mondiale saranno colpiti da carenze idriche nei prossimi tre anni. Per di più, l’attività umana incide notevolmente sul ciclo idrologico. Nell’aprile 2022 il mondo ha superato il planetary boundary dell’acqua verde (precipitazioni, umidità del suolo ed evaporazione), cruciale per i processi ecologici, atmosferici e biogeochimici.  L’industria della cosmesi dipende fortemente dall’acqua ed è uno dei motori principali degli impatti sulle risorse idriche; ha quindi un ruolo fondamentale (e un interesse diretto) nel costruire un futuro in cui l’acqua sia sicura per tutti. Per ridurre i consumi, limitare la dipendenza e arginare l’inquinamento continuando a soddisfare le esigenze dei consumatori, le aziende devono pianificare una solida gestione delle risorse idriche, dalla gestione, alla composizione e oltre.

Impatto e rischio vanno di pari passo

Le imprese nel settore cosmetici e cura della persona non hanno solo un ruolo cruciale nell’affrontare le sfide idriche, ma hanno anche un interesse diretto a fronteggiarle, dato che impatto e rischio vanno di pari passo. 

L’acqua è un elemento fondamentale nella composizione e nella produzione dei prodotti. È necessaria in tutte le fasi del ciclo di vita di un prodotto: non solo è la base di moltissime formule (costituisce fino a ⅔ del volume del prodotto per tante creme, lozioni, gel doccia e shampoo), ma è essenziale anche per la coltivazione delle materie prime, la lavorazione e la trasformazione, le misure igieniche e la produzione degli imballaggi. I consumatori, a loro volta, consumano molta acqua quando utilizzano questi prodotti.  Si tratta di un tema sempre più attuale e sempre più brand iniziano ad assumersi impegni e a definire obiettivi per far fronte alle sfide legate all’acqua. I dati raccolti da CDP mostrano che nell’ultimo decennio nel settore privato la divulgazione dell’impatto idrico è aumentata in modo esponenziale, con una crescita dell’85% del numero di aziende che hanno diffuso informazioni sul tema negli ultimi cinque anni.

Ciò nonostante, l’acqua continua a rappresentare un punto debole per molti brand, e sono ancora troppo pochi i marchi che prendono provvedimenti adeguati per ridurre le proprie dipendenze e i propri impatti. La stessa analisi di CDP rivela che nel 2022 il 55% degli intervistati non ha comunicato nulla in materia di acqua, malgrado la rilevanza per il loro settore.

Ciò è probabilmente dovuto, almeno in parte, al fatto che l’acqua sia una risorsa prontamente disponibile e poco costosa, da cui deriva la percezione che sia quindi economica, sacrificabile e illimitata. Ma alla luce delle attuali pressioni che mettono a rischio le risorse idriche del pianeta, questa mentalità è deleteria e potrebbe compromettere la vitalità futura del settore. 

Le sfide legate all’acqua, tra cui le variazioni della sua disponibilità e qualità a causa della crisi climatica (ad es. cambiamenti dell’andamento di temperature e precipitazioni, maggiore variabilità dei fenomeni idrogeologici estremi)avranno un impatto a lungo termine sul settore cosmetico, proprio come la gestione non sostenibile delle risorse idriche (consumo e inquinamento) sia da parte delle aziende Beauty e prodotti per la cura della persona che di settori correlati, come l’agricoltura.

La maggiore frequenza dei periodi di siccità incide già sul settore, spingendo molte aziende a cercare di ridurre la loro impronta idrica e allentare la pressione sulle riserve d’acqua in calo a causa della crisi climatica, del sovraconsumo e dell’inquinamento.  Dare priorità alla gestione idrica per ridurre l’impatto e la dipendenza del settore dall’acqua è di fondamentale importanza. Disporre di strategie di gestione dell’acqua solide e ambiziose può aiutare le aziende a incrementare la resilienza della supply chain, contribuire alla sicurezza idrica globale e velocizzare il progresso verso altri obiettivi di sostenibilità, come il cambiamento climatico e la biodiversità. Chi non affronta attivamente la questione dell’acqua dovrà fare i conti con cambiamenti dirompenti e perdite finanziarie. Secondo le stime, passare all’azione costerebbe 18 volte meno che ignorare il problema e non fare nulla.

Dove intervenire per fare la differenza

Per ridurre efficacemente gli impatti e i rischi legati all’acqua, le aziende devono concentrare gli sforzi dove avranno maggiore effetto: a monte, a valle e alla fine della vita del prodotto.  

A monte

Una buona parte dell’impatto di un prodotto viene determinata durante la fase di sviluppo e design. È qui quindi che le aziende hanno maggiori opportunità di ottimizzare il consumo di acqua e prevenire l’inquinamento, prendendo in considerazione i modelli di consumo e la pressione sulle risorse lungo l’intera catena del valore. Ciò significa che non possono porre l’attenzione solo sulle composizioni dei prodotti (e su come migliorare la loro biodegradabilità), ma devono anche considerare l’approvvigionamento delle materie prime, i processi produttivi (incluse le procedure di riscaldamento e raffreddamento per i processi chimici, l’asciugatura, la sterilizzazione e la distillazione), gli imballaggi e la distribuzione.

Di fatto, il settore della cosmetica fa già ampio ricorso alla scienza per ottimizzare la qualità e la sicurezza dei prodotti: impiegare quindi le risorse esistenti per creare prodotti sostenibili non è che il passo successivo più naturale.

A valle

Quando si parla di accessibilità, qualità e disponibilità dell’acqua, spesso si trascura l’acqua necessaria ai consumatori per utilizzare i propri prodotti cosmetici e di cura personale. Eppure, data l’ampia quantità di acqua necessaria per i prodotti da risciacquo come gli shampoo, la fase d’uso dei prodotti potrebbe rivelarsi l’area di maggiore impatto di un’azienda. In diverse parti del mondo, creme solari e bagnoschiuma sono tra i principali fattori di inquinamento dell’acqua.

Tenendo conto delle risorse necessarie al momento dell’utilizzo, incluse acqua ed energia, gran parte di questo impatto può essere mitigata già nella fase di progettazione Ad esempio, uno shampoo senza risciacquo (alternativa ingegnosa rispetto al prodotto tradizionale) potrebbe avere un impatto simile nella fase di produzione, ma la sua impronta idrica sarà significativamente inferiore a quella di uno shampoo tradizionale, se si considerano i parametri della fase di utilizzo. 

Allo stesso modo, gli articoli di make-up che possono essere rimossi con dischetti struccanti riutilizzabili invece di dover essere risciacquati avranno un’impronta idrica complessiva decisamente inferiore. Anche i gel doccia ad azione schiumogena rapida avranno bisogno di meno acqua. 

Fine vita

Gli articoli cosmetici e di cura della persona continuano a incidere sull’ambiente anche dopo l’impiego: i prodotti e le formule con risciacquo finiscono nei corsi d’acqua e contribuiscono all’inquinamento. Si sa molto poco dell’impatto dell’inquinamento chimico sugli ecosistemi, soprattutto nelle regioni con una scarsa regolamentazione; ma l’impatto dei prodotti sulla qualità dell’acqua sta diventando una questione normativa e reputazionale urgente in molte parti del mondo.

Durante la fase di formulazione, i brand hanno l’opportunità di considerare il fine vita degli ingredienti di un prodotto. Ancora una volta, l’impronta idrica potrebbe essere minima nella fase di produzione e lavorazione, ma alcuni ingredienti possono causare impatti considerevoli nei sistemi delle acque reflue per via della loro ecotossicità – motivo per cui è cruciale affrontare la questione della sostenibilità in maniera olistica.

Le cosiddette microbead, microparticelle in plastica usate comunemente negli esfolianti, suscitano le proteste in tutto il mondo. L’oxibenzone, sostanza chimica usata nelle protezioni solari, può danneggiare le barriere coralline persino in concentrazioni minime equivalenti a una goccia d’acqua in 6,5 piscine olimpioniche (vale la pena sottolineare che, ovviamente, la peggiore minaccia per le barriere corallineè il cambiamento climatico). Lo zinco piritione, ingrediente attivo degli shampoo antiforfora, è un altro composto potenzialmente ecotossico.

Tenere conto dell’ecotossicità degli ingredienti è ancora più importante in alcune regioni rispetto ad altre, visto che varia a seconda dello stato delle infrastrutture per il trattamento delle acque.

Alla luce delle attuali pressioni che mettono le risorse idriche del pianeta a rischio, la percezione che l’acqua sia poco costosa, sacrificabile e illimitata è un pericolo reale e potrebbe compromettere la vitalità futura del settore.

L’acqua come priorità aziendale strategica

Per le aziende di cosmetica e cura della persona è giunto il momento di invertire la rotta sul rischio idrico. Qui di seguito abbiamo delineato i passaggi chiave che i brand dovrebbero seguire per rispondere alle sfide che li attendono. È importante sottolineare che le strategie idriche devono essere definite d’intesa con gli obiettivi relativi a clima, suolo e biodiversità, in modo da massimizzare i risultati ed evitare di spostare semplicemente l’impatto.

Promuovere una gestione responsabile dell’acqua e comprendere i propri rischi 

Per arrivare a un consumo dell’acqua socialmente equo, ecosostenibile ed economicamente vantaggioso per tutti, la prima cosa che le aziende devono fare è analizzare e quantificare i potenziali fattori di rischio idrico.

I rischi idrici sono legati a una serie di fattori locali, tra cui scarsità idrica regionale, normative e problematiche di quantità e qualità dell’acqua specifiche per l’area. I brand di cosmetica e cura della persona dovrebbero iniziare analizzando e stimando i loro impatti e le loro dipendenze dall’acqua lungo l’intera supply chain. È possibile effettuare un’analisi esaustiva del rischio e dell’impronta idrica usando strumenti come il Water Risk Filter del WWF, Aqueduct e Water Risk Monetizer, che consentono di raccogliere dati e stilare un elenco di potenziali aree e località problematiche da considerare nella definizione dei target. Anche il Science Based Targets Network (SBTN) offre indicazioni a supporto delle valutazioni aziendali. 

Definire obiettivi ambiziosi con target idrici adeguati al contesto

I dati raccolti possono essere usati per orientare la pianificazione strategica e la definizione degli obiettivi. Grazie a framework consolidati in ambito idrico come la metodologia di SBTN per stabilire obiettivi scientifici per l’acqua, riuscirete a definire target science-based coraggiosi. Allineate le vostre aspirazioni con le azioni necessarie e stabilite dei KPI che vi aiutino a misurare i progressi. Preparatevi anche a divulgare i dati, perché la trasparenza è sempre più imprescindibile per contrastare i rischi in termini normativi e di reputazione.

Affrontare insieme le sfide legate alla gestione dell’acqua

È fondamentale che i brand di cosmetici e cura della persona ottimizzino il consumo di acqua nelle loro operazioni e riducano l’impronta idrica per prodotto finito. Devono anche assicurarsi che la qualità dell’acqua sia conservata e mantenuta in tutti i propri siti, fin dall’approvvigionamento delle materie prime. 

Una gestione responsabile delle risorse idriche può stimolare una forte innovazione all’interno dell’azienda. Ma non solo: instaurare politiche e investimenti sostenibili e paritari nei bacini idrografici contribuirà a incoraggiare la collaborazione tra fornitori e stakeholder locali.

Promuovere l’innovazione con nuove tecnologie 

Considerando l’intero ciclo di vita di un articolo le aziende avranno la possibilità di reinventare il modo in cui i prodotti vengono realizzati, usati e smaltiti, a beneficio di falde acquifere, comunità ed ecosistemi in qualsiasi luogo. Ad esempio, detergenti, esfolianti e maschere viso in polvere evitano il ricorso all’acqua come riempitivo del prodotto, riducendo il peso e i rifiuti. Gli ingredienti attivi come la vitamina C si deteriorano nel tempo se mescolati con l’acqua, ma se rimangono sotto forma di polvere la loro purezza può essere preservata. I prodotti senza acqua inoltre non hanno bisogno di conservanti, che sono tra i principali responsabili delle irritazioni cutanee.

Passare a un approccio integrato

Le imprese realmente determinate a operare in equilibrio con la Natura non raggiungeranno il proprio intento se agiscono solo sul fronte del clima. L’acqua riveste un ruolo vitale quando si tratta di mitigare e adattarsi agli effetti del cambiamento climatico, oltre che di contrastare la perdita di biodiversità e contribuire alla salute, alla dignità e al benessere degli esseri umani. Per le aziende di cosmetica e cura della persona è arrivato il momento di adottare strategie coraggiose e di accelerare gli interventi in risposta alle sfide idriche.

Una volta stabiliti gli obiettivi, le imprese devono prepararsi a trasformare la mentalità interna delle loro organizzazioni, allineandola con i propri target e con gli OSS definiti dall’ONU, nel rispetto del diritto umano dell’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari. Mettete a punto piani d’azione chiari per l’acqua per orientare il processo decisionale a supporto dei vostri obiettivi, lavorando insieme a stakeholder chiave come investitori, clienti, sedi, fornitori e comunità locali. Potete usare la contabilizzazione volumetrica dei benefici idriciper implementare le vostre attività di gestione dell’acqua, misurare il loro valore e aumentare la probabilità di generare benefici sociali, economici e ambientali trovando una soluzione a sfide idriche condivise.

La situazione delle nostre acque ha raggiunto un punto critico. Mettendo in campo nuovi modelli di business, innovazioni, iniziative operative e strategie di rilevanza locale che ridurranno il consumo e l’inquinamento idrico, avete l’opportunità di diventare quei gestori e custodi dell’acqua di cui il nostro pianeta ha disperatamente bisogno. Iniziando ad agire subito, il settore dei cosmetici e dei prodotti per la cura della persona sarà ben equipaggiato per rispondere alle sfide, adattarsi e prosperare in un mondo in rapida evoluzione.

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Sfruttare le “avoided emission” per accelerare la trasformazione e favorire la decarbonizzazione

emissioni evitate quantis
emissioni evitate quantis

Le avoided emission possono essere utili alle aziende per comprendere il loro impatto globale. Ma limitarsi a misurarle non è sufficiente per avere una crescita incisiva.

In sintesi:

  • Le avoided emission permettono alle aziende di ampliare la loro agenda climatica, fornendo le informazioni necessarie per sviluppare ed espandere soluzioni incisive nei mercati con un potenziale elevato di decarbonizzazione.
  • Le imprese possono sfruttare le avoided emission come metrica per individuare opportunità di innovazione, estendere le soluzioni su più ampia scala e facilitare le discussioni interne su come aumentare il proprio contributo alla riduzione delle emissioni globali.
  • Limitarsi a sommare le avoided emission  non basta. Per sfruttarle come leva efficace per la decarbonizzazione globale, le aziende devono impiegare le avoided emission  come uno strumento per esaminare e motivare il loro approccio alla crescita.
  • Le avoided emission  non annullano le emissioni prodotte dall’azienda e quindi non possono essere considerate per gli obiettivi aziendali in termini di carbon neutrality o di net zero.

Nella corsa per limitare l’aumento delle temperature globali a 1,5° C, il contributo delle imprese alla decarbonizzazione globale è stato perlopiù incentrato sulla riduzione delle proprie emissioni dirette e indirette di gas serra (GHG). E a buon ragione: l’IPCC  ha dimostrato chiaramente che  riduzioni drastiche  e immediate in tutti i settori sono assolutamente necessarie se vogliamo scongiurare i peggiori scenari del cambiamento climatico. Ma per raggiungere lo net zero, gli interventi delle aziende contro la crisi climatica devono andare oltre il semplice “fare meno danni” e arrivare a fare attivamente “più cose buone”.

In aggiunta agli sforzi di riduzione, le aziende dovranno iniziare a fornire soluzioni climatiche con effetti di decarbonizzazione considerevoli per la società. L’impatto potenziale di queste azioni complementari è considerevole. Nel suo rapporto di sintesi AR6, infatti, l’IPCC segnala le strategie sul fronte della domanda come potenziali strumenti per diminuire le emissioni di gas serra del 40-70% entro il 2050.

Le avoided emission offrono alle aziende un modo per ampliare la loro agenda climatica, prendendo in considerazione l’impatto complessivo sulla società e fornendo metriche preziose per accelerare lo sviluppo e l’adozione di soluzioni dall’elevato potenziale di decarbonizzazione. E questo approccio sta prendendo piede. Stiamo già osservando un numero crescente di imprese che usano le loro avoided emission  come indicatore di sostenibilità. Il termine però può essere difficile da comprendere, causando greenwashing involontario. Cosa si intende esattamente con avoided emission? E le aziende come possono assicurarsi di usare le informazioni sulle avoided emission in una maniera credibile, che porti a conseguenze climatiche positive per la società?

Capire le avoided emission

Misurando le avoided emission le aziende possono determinare le riduzioni di emissioni che avvengono al di fuori del ciclo di vita e della supply chain aziendale dovute all’impiego di quel prodotto (cioè l’impatto “positivo” sulla società). Rappresentano la differenza tra le emissioni di GHG che sarebbero generate dal ciclo di vita di un prodotto tradizionale, e quelle causate da un prodotto alternativo con GHG ridotti: pensate ad esempio alla differenza tra latte vegetale e latte vaccino, o tra le lampadine a LED e quelle a incandescenza.

Il focus delle avoided emission è ridurre le emissioni nella società, al di fuori della catena del valore di un’azienda, offrendo prodotti o servizi che promuovano cambiamenti comportamentali o di mercato più ampi. Non si tratta quindi di ridurre l’inventario di gas serra dell’azienda stessa, ma di spostare l’impatto in termini di GHG al di fuori della sfera aziendale. Oltre ad aumentare le avoided emission, alcune soluzioni possono aiutare le imprese a diminuire le loro emissioni dirette e indirette (ad es. sostituendo prodotti animali con prodotti a base vegetale): uno scenario vantaggioso per tutti. Per le aziende i cui prodotti possono già essere considerati soluzioni climatiche, come ad esempio i pannelli solari, un aumento delle vendite, e quindi delle avoided emission, porterà anche a una crescita delle emissioni dell’impresa. Ecco perché per le aziende è fondamentale lavorare sulle avoided emission in aggiunta – e non in alternativa – agli sforzi compiuti per ridurre le proprie emissioni. Per mitigare la crisi climatica globale sono necessarie entrambe le azioni.

**Nota: le avoided emission sono diverse footprint della rosa dei gas serra e devono quindi essere indicate separatamente. Le avoided emission non cancellano le emissioni di un’azienda e quindi non dovrebbero essere considerate per gli obiettivi aziendali in termini di neutralità carbonica o di net zero. Per maggiori informazioni consultare la guida del WBCSD sulle avoided emission (“WBCSD Guidance on Avoided Emissions.”)**

Sfruttare le avoided emissions per supportare il processo decisionale + accelerare il cambiamento

Le avoided emission offrono alle aziende uno strumento efficace per accelerare l’azione per il clima su larga scala, fornendo le informazioni necessarie a sviluppare ed espandere soluzioni incisive nei mercati con un elevato potenziale di decarbonizzazione. Per di più, le aziende possono usare le analisi delle avoided emission per comunicare il loro contributo all’obiettivo  1,5°C.

Identificare opportunità di innovazione

Per raggiungere gli obiettivi climatici aziendali e globali (nonché quelli legati ad altri planetary boundaries, come la come la biodiversità e l’acqua), occorre un cambiamento sistemico. Come società, non possiamo continuare a produrre come abbiamo sempre fatto.

Le imprese possono sfruttare le analisi sulle avoided emissions per guidare la trasformazione dei modelli di business e sviluppare soluzioni che riducano le emissioni a livello globale. Questo richiederà una diversificazione o trasformazione del loro portafoglio di prodotti che sostituiranno i prodotti tradizionali con alternative dalle emissioni di gas serra minori. Dovranno anche guidare clienti e consumatori di determinati prodotti tradizionali o di intere categorie merceologiche, invogliandoli a sostituire articoli tradizionali con alternative a emissioni inferiori.

Ad esempio, spostando l’attenzione verso i consumatori di uno o più prodotti caseari tradizionali, un’azienda di prodotti a base vegetale potrebbe apportare un contributo maggiore alla decarbonizzazione globale,  offrendo alternative a emissioni ridotte. A titolo di riferimento, i “latticini” a base vegetale generano in media un terzo delle emissioni di gas serra delle controparti casearie (vaccine) e consumano meno terra e acqua. Per fare un altro esempio: un produttore di elettrodomestici ad alta efficienza energetica potrebbe creare un impatto climatico positivo offrendosi come alternativa ad apparecchi tradizionali e meno efficienti, seppur mantenendo la stessa funzionalità e presentandosi attraverso i canali di vendita e marketing occupati dai prodotti convenzionali.

Estendere le soluzioni su una scala più ampia

Le avoided emissions possono essere sfruttate dalle imprese come metrica per guidare in maniera strategica il processo decisionale relativo alle soluzioni e ai mercati a cui dare la priorità.

Per incrementare il loro contributo alla decarbonizzazione globale (e quindi alla riduzione delle emissioni sociali), le aziende devono o aumentare il tasso di sostituzione (ad es. puntando alla crescita in mercati specifici o per determinati consumatori) o ampliare il divario di emissioni tra il loro prodotto a basso tenore di carbonio e un prodotto tradizionale. Un’analisi delle avoided emission può aiutare le imprese a comprendere l’impatto sociale di diverse soluzioni in mercati differenti e così a identificare dove focalizzare risorse e sforzi per massimizzare la riduzione delle emissioni globali. Queste informazioni non solo facilitano il processo decisionale, ma permettono anche alle aziende di massimizzare il loro contributo alla decarbonizzazione globale. 

Comunicare l’impatto + cambiare i comportamenti

Probabilmente le avoided emissions sono note soprattutto per il loro uso come strumento di responsabilizzazione. Creano un linguaggio che le aziende possono sia usare internamente per discutere di come aumentare i “benefici” dei loro prodotti (ovvero il loro contributo alla decarbonizzazione globale attraverso la riduzione delle emissioni globali), sia per comunicare con i consumatori in modo credibile riguardo alle soluzioni con a basse emissioni.

Usando i dati sulle avoided emission, le aziende possono dar vita a narrazioni convincenti (e comprovate) sull’impatto climatico dei loro prodotti , fornendo ai consumatori una motivazione solida per scegliere un prodotto alternativo rispetto a uno tradizionale. In questo modo, le aziende possono influenzare i cambiamenti di mentalità e comportamento che servono per raggiungere l’obiettivo di 1,5° C.

Pensare agli obiettivi di vendita in modo strategico: sostituzione + cambiamento come indicatori di sostenibilità

All’apparenza, gli obiettivi relativi alle avoided emission possono essere visti come target di vendita: un’azienda deve vendere di più per evitare più emissioni. Ma c’è una sfumatura importante che sfugge a molte aziende e che impedisce loro di contribuire realmente alla decarbonizzazione globale. 

L’obiettivo primario delle avoided emission non è aggiungere più prodotti alternativi al mercato (cosa che, da sola, farebbe aumentare le emissioni nette globali); è anche sostituire i prodotti tradizionali ad alta intensità di GHG. Per farlo occorre puntare alla crescita nei mercati con il maggiore potenziale di sconvolgimento e, di conseguenza, il più elevato potenziale di decarbonizzazione. Va sottolineato che propagandare le avoided emission di una soluzione che non compensa effettivamente l’impatto di un prodotto tradizionale equivale a fare greenwashing.

L’obiettivo primario delle avoided emission è sostituire i prodotti ad alto tenore di carbonio nel mercato. Promuovere le avoided emission di una soluzione che non compensa effettivamente l’impatto di un prodotto tradizionale equivale a fare greenwashing.

Per sfruttare le analisi delle avoided emission come leva efficace per contribuire agli obiettivi globali di net zero, le aziende devono usarle come un strumento per esaminare e motivare il loro approccio alla crescita. In particolare, le avoided emission possono aiutare le aziende a definire: 

  1. Dove la loro soluzione abbia il potenziale per sostituire il numero maggiore di prodotti o i prodotti con il più elevato impatto di GHG (ad es. mercati dove il consumo di un prodotto ad alta intensità di GHG è elevato e dove le alternative a basse emissioni sono poche)  
  2. Su quali prodotti indirizzarsi per la sostituzione (importante: le aziende dovrebbero dare la priorità ai prodotti con il potenziale di cambiamento maggiore, concentrandosi sull’ampliamento del divario di emissioni tra prodotti tradizionali e alternative a GHG ridotti; conteggiare le avoided emission confrontandole con un prodotto analogo ad emissioni ridotte, come ad esempio latte di avena e latte di mandorla, è considerato greenwashing)
  3. Come ridurre l’impatto in relazione a un prodotto tradizionale

Per illustrare questo aspetto prendiamo l’esempio di Oatly, il più grande produttore al mondo di bevande a base di avena, che ha collaborato con Quantis per esplorare il concetto di avoided emission. Oatly ha un portafoglio di prodotti vegetali che comprende bevande, semifreddi, yogurt, creme spalmabili, ecc. Il divario di emissioni tra i prodotti venduti da Oatly (“soluzione”) e i prodotti tradizionali che sostituiscono (“riferimento”) rappresenta ciò che viene evitato. Per guidare una crescita strategica e sostenibile, l’azienda sta valutando dove crescere: in quali mercati la presenza maggiore di alternative vegetali sostituirà la produzione e il consumo di latticini; a quali prodotti caseari tradizionali puntare per la sostituzione; e come ridurre ulteriormente l’impatto dei propri prodotti rispetto all’alternativa tradizionale comparabile. 

Per quanto riguarda i luoghi dove sostituire i prodotti tradizionali per favorire il calo delle emissioni nella società, Oatly ha ampliato la sua attività in regioni con un consumo di latticini tradizionali storicamente elevato, come l’Europa settentrionale e il Nord America. Queste regioni offrono a Oatly un potenziale notevole in termini di avoided emission, perché le sue soluzioni a GHG ridotti hanno la possibilità di sostituire un numero significativo di prodotti ad alta intensità di emissioni. Oatly si sta espandendo anche in zone dove le opzioni vegetali alternative ai latticini sono relativamente poche, con l’intento di assumere un ruolo di leader in quei mercati e continuare a sostituire i prodotti caseari.

Vale la pena sottolineare che la mera presenza di un prodotto (e persino le sue credenziali di sostenibilità) non basta per cambiare preferenze e mentalità: è necessario che le persone vogliano comprarlo. Per orientare i comportamenti di acquisto dei consumatori verso alternative con meno GHG e sostituire efficacemente i prodotti tradizionali, le alternative devono essere comparabili o migliori (per es. sapore, composizione, prezzo, qualità, ecc.).

Le avoided emission offrono alle aziende uno strumento prezioso per accelerare la leadership climatica, ma se usate come mero stratagemma di marketing o solo per incentivare le vendite non riusciranno a produrre un cambiamento significativo. Le imprese possono ottenere un impatto positivo per la società se e quando usano le metriche sulle avoided emission per valutare in modo critico, motivare e riformulare i loro modelli e le strategie di business; dai prodotti che vendono ai fornitori con cui lavorano e ai mercati nei quali operano.

Il vostro contributo è legittimo… o è greenwashing? Una metodologia per comprendere il vostro impatto

Quindi, come possono fare le aziende a capire se la loro soluzione sta davvero portando a riduzioni delle emissioni significative per la società? Quantis ha lavorato insieme a Oatly per sviluppare una metodologia che può essere usata per misurare le avoided emission grazie al passaggio dai latticini tradizionali ai prodotti alternativi a base vegetale. Qui sotto vi forniamo una panoramica della metodologia e degli elementi chiave che le aziende devono misurare per comprendere le avoided emission complessive:

come calcolare le emissioni evitate quantis

Differenza di emissioni: per fare affermazioni comparabili tra due prodotti, le aziende devono effettuare analisi del ciclo di vita (life cycle assessment, LCA) conformi agli standard ISO, confrontando le emissioni di GHG generate da uno o più prodotti aziendali con le emissioni di GHG create dai prodotti tradizionali che si stanno sostituendo nel mercato. Se un prodotto è disponibile in più paesi di vendita, la procedura consigliata è analizzare i modelli a livello nazionale.

Volumi di vendita: le aziende dovranno anche raccogliere dati sulle vendite totali dei prodotti che stanno confrontando, in termini di volume (non di ricavi). Il volume delle vendite deve essere specifico per il prodotto che stanno analizzando e per il paese o i paesi in cui è venduto. 

Tasso di conversione: l’ultima informazione necessaria per calcolare le avoided emission è la percentuale di prodotti tradizionali sostituiti nel mercato rilevante dall’alternativa a GHG ridotti. Per ottenerla si può condurre un sondaggio tra i clienti al punto di vendita, per confermare se stanno acquistando i prodotti dell’azienda, se stanno sostituendo le opzioni tradizionali con i prodotti dell’azienda, quali prodotti tradizionali stanno sostituendo e quando hanno iniziato a rimpiazzare il prodotto tradizionale con l’alternativa offerta dall’azienda. Dato che cultura e consuetudini possono influire sui comportamenti di acquisto, il sondaggio deve essere condotto a livello nazionale (per lo meno per i mercati più rilevanti). Le domande devono includere le alternative principali e devono essere specifiche per il prodotto alternativo offerto dall’azienda.

Ad esempio, nel caso di Oatly, la domanda per definire il tasso di conversione era: “Cosa consumavi prima di iniziare a bere Oatly?” Il consumatore poteva scegliere tra “latte animale”, “altro latte a base vegetale”, “latte d’avena di un altro marchio”, “altre bevande come acqua, succo, bibite gassate, ecc.” e “prima non usavo niente, bevevo solo caffè senza latte”. Siccome il “prodotto tradizionale” o lo “scenario di riferimento” è il latte animale e “l’alternativa a bassi GHG” o “soluzione” è rappresentata dalle bevande Oatly, solo la quota di clienti che ha indicato che prima usava latte animale dovrebbe essere conteggiata nel calcolo del tasso di conversione. 

Pertanto, per calcolare le avoided emission, le aziende dovrebbero moltiplicare le 3 informazioni di cui sopra come segue:

calcolo emissioni evitate quantis

Il processo deve essere ripetuto per tutti i prodotti e i paesi che l’azienda desidera considerare nei suoi calcoli.

Seguire questa metodologia per misurare le avoided emission può aprire alle aziende nuove vie per ottenere un impatto significativo e velocizzare la decarbonizzazione globale in settori chiave dell’economia. Può portare a una prospettiva nuova e più ampia sul ruolo del mondo imprenditoriale nella lotta al cambiamento climatico. E, se replicata da molte aziende o da interi settori, può fornire un’indicazione dell’impatto che si genera trasformando i settori economici tradizionali.

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EU: un accordo storico per raggiungere gli obiettivi climatici

EU agreement climate objectives


Un accordo apporta riforme sostanziali al mercato del carbonio

Il 17 dicembre 2022 il Consiglio dell’UE e il Parlamento europeo hanno raggiunto uno storico accordo provvisorio sulle proposte legislative critiche del pacchetto “Fit for 55” volte a ridurre ulteriormente le emissioni e affrontarne l’ impatto sociale. L’accordo è provvisorio in attesa dell’adozione formale in entrambe le istituzioni.

Originariamente proposto nel 2021 dalla Commissione europea, il programma alza il livello di ambizione climatica dei 27 paesi dell’Unione per raggiungere gli obiettivi di riduzione dei gas ad effetto serra inseriti nel piano europeo per il clima. Oltre alla riforma del mercato del carbonio, la proposta prevede anche altre misure importanti quali una tassa sul carbonio che le famiglie dovranno pagare sui combustibili e sul riscaldamento a gas o a gasolio a partire dal 2027. Una tassa, tuttavia, che sarà in vigore solo fino 2030 e la cui attivazione potrebbe essere rinviata se i prezzi dell’energia continueranno la loro corsa.

Il Consiglio e il Parlamento hanno inoltre convenuto di istituire un Fondo sociale per il clima per aiutare le famiglie vulnerabili, le piccole imprese e le società di trasporti a far fronte all’impatto sui prezzi di un sistema di emission trading per edifici e trasporto su strada, oltre i carburanti per altri settori.

Questo accordo va nella direzione di una legislazione ambiziosa, che vede le nazioni europee in prima linea nella lotta globale contro il cambiamento climatico.

Per saprne di più

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Quantis si unisce a BCG per accelerare la trasformazione verso il business sostenibile

quantis-bcg
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L’acquisizione di Quantis da parte di BCG ci aiuterà a compiere più rapidamente la nostra missione: riportare il business in equilibrio con la natura.

Quantis è felice di annunciare che uniremo le nostre forze a quelle di Boston Consulting Group (BCG)! L’acquisizione di Quantis da parte di BCG ci permetterà di compiere più rapidamente la nostra missione di trainare la trasformazione sostenibile per riportare il business in equilibrio con la natura.

Anche se Quantis continuerà a operare come divisione aziendale autonoma all’interno di BCG e manterrà il proprio marchio e i propri team, la collaborazione tra le due società sblocca un potenziale inedito sia per i nostri clienti che per il pianeta.

Come organizzazione sappiamo che la finestra utile per mitigare la crisi ambientale si sta chiudendo rapidamente e la posta in gioco non è mai stata così alta. Il senso degli affari e le competenze di consulenza all’avanguardia di BCG, abbinati al nostro know-how specialistico in campo ambientale e alla mission di allineare le aziende ai limiti planetari, ci permetteranno di amplificare il nostro impatto.

Da tempo crediamo che per fare il grande salto necessario per riportare il mondo delle aziende in equilibrio con la natura non si possa continuare con il business as usual. Ciò non vale solo per i nostri clienti, ma anche per Quantis. Ed è per questo che abbiamo deciso di portare il nostro impegno a favore della collaborazione (elemento essenziale per promuovere un cambiamento sistemico) a un altro livello, alleandoci con una società leader nel settore della business transformation.

BCG è il partner giusto per Quantis. Professionista della consulenza strategica su scala globale, BCG attua piani di sostenibilità ambiziosi ed è una voce autorevole nel suo settore grazie alla partecipazione ai forum più importanti del nostro tempo, dalla COP27 al Science Based Target Network (SBTN). Per di più si è impegnata a garantire che l’agenda della sostenibilità globale sia basata sulla scienza.

Questo accordo fornisce a Quantis una piattaforma molto più ampia da cui far conoscere e coinvolgere altri nella nostra missione, accelerare la trasformazione e dar vita a un’economia planetaria ovvero un sistema economico che rispetta i limiti ecologici del pianeta.

Unendo le forze per trainare la trasformazione verso un business sostenibile, noi di Quantis e BCG:

  1. Genereremo un impatto maggiore e più rapido per il pianeta rispetto a quello che otterremmo da soli. Aiuteremo i clienti non solo a valutare il proprio impatto ambientale e a mettere in atto piani per arginarlo, ma anche a trasformare le loro organizzazioni per operare nel rispetto dei limiti planetari. Insieme convinceremo i CEO a impegnarsi con più coraggio e dedizione a favore della natura.
  2. Saremo colleghi e partner di pensiero. L’approccio scientifico e il rinomato know-how ambientale di Quantis sono preziosi e complementari alle capacità di BCG. Insieme, promuoveremo la collaborazione e lo scambio di idee come leader di pensiero.
  3. Coglieremo opportunità in linea con le nostre convinzioni condivise. Entrambi pensiamo che le aziende debbano essere in prima linea nel guidare il cambiamento sistemico. Combinando i nostri punti di forza complementari (le competenze approfondite nel settore e l’abilità di guidare i clienti attraverso trasformazioni complesse di BCG e l’approccio di Quantis basato sulla perizia scientifica e sul rispetto dei limiti planetari), daremo vita a un’offerta unica sul mercato per aiutare i clienti a far fronte alla crisi ambientale.
  4. Proteggeremo la cultura che ha reso Quantis un’azienda di successo e la estenderemo all’organizzazione di BCG. Ciò significa mantenere il marchio Quantis e i suoi team. BCG salvaguarderà e alimenterà la nostra cultura unica, costruita attorno al saldo impegno di trainare una trasformazione realmente sostenibile.

Mentre le aziende lungimiranti e orientate al futuro sono sempre più consapevoli dei gravi rischi posti dalla crisi ambientale, c’è ancora un divario enorme tra l’impegno e l’azione e il tempo a nostra disposizione per scongiurare lo scenario peggiore per il pianeta sta per scadere. Siamo entusiasti di poterci rimboccare le maniche insieme ai nostri nuovi colleghi di BCG per abbattere gli ostacoli al cambiamento sistemico e guidare le imprese nel loro viaggio di trasformazione dal business as usual al business al suo meglio.

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Il viaggio – Quantis podcast

Benvenuti a “Il Viaggio”, il podcast di Quantis che racconta il viaggio di oggetti della nostra vita quotidiana, per indagarne l’impatto ambientale nella prospettiva del ciclo di vita: quanto incide sul benessere del nostro pianeta la realizzazione di un paio di sneakers? E quanto inquina la nostra tazzina di caffè quotidiana? E quale la footprint del vasetto della nostra crema idratante preferita? Scopriamolo insieme!

La prima puntata è dedicata alla prima parte del lungo viaggio del caffè, partendo dai luoghi di coltivazione: come si produce il caffè, e quanto è sostenibile? Come si può ridurne l’impatto ambientale?

La seconda puntata del viaggio del caffè ci porta nel magico mondo della tostatura e della distribuzione, accompagnandoci fino al bar e alle nostre case. Quanto sono sostenibili queste fasi e come possiamo ridurne l’impatto ambientale?

Il viaggio del caffè si è concluso. Scopriamo ora i segreti, l’impatto ambientale ed il percorso di sostenibilità delle scarpe più amate e indossate del mondo: le sneaker! Celebri, ma anche sostenibili? Dalla produzione all’arrivo ai nostri piedi, scopriamolo in questa terza puntata di “Il Viaggio”.

Il viaggio delle sneaker, in termini di sostenibilità e impatto, non finisce nel momento in cui cessiamo di indossarle. Come per molti altri oggetti, esiste poi un altro viaggio, che inizia proprio quando finisce la prima vita utile del prodotto. Scopriamo insieme buone prassi di un settore, quello di Fashion & Sporting Goods, che si muove a grandi passi verso la sostenibilità.

I prodotti cosmetici sono nelle nostre mani tutti i giorni. A partire dalla parte più visibile del prodotto: il vasetto. Il packaging dei prodotti cosmetici è infatti l’evidenza più tangibile della nostra relazione con il prodotto e con il brand. Senza dimenticare il ruolo chiave di ogni imballaggio: proteggere e rendere accessibile il contenuto. Ma quali gli hotspot di impatto ambientale? Scopriamolo insieme in questo nuovo episodio de “Il Viaggio”

Il vasetto di crema è ora pronto ad arrivare nelle nostre mani. Ma cosa succede, una volta terminato l’utilizzo del cosmetico? Che impatto ha il fine-vita di una crema a livello ambientale? Lo scopriremo in quest’ultima puntata de Il Viaggio. Buon ascolto!

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Altre piattaforme di podcast:

Cosa vuol dire cambiamento climatico?

Quantis sustainability communications Our Difference Ripple Effect

Milano, 5 aprile 2022 Cosa vuol dire cambiamento climatico? Che livello di complessità sottende quest’espressione, entrata nell’uso comune? In cosa si traducono, nel concreto, gli impegni che sempre più attori stanno intraprendendo per rispondervi? Se i suoi effetti sono ormai sotto gli occhi di tutti, il “vocabolario” del cambiamento verso la sostenibilità ambientale non è altrettanto diffuso. Lessico articolato, per un fenomeno complesso quale il Climate Change, dalle molteplici implicazioni scientifiche, economiche e sociali.

Quantis, società leader per la consulenza ambientale, ha provato a fare chiarezza individuando le 10 parole chiave (più una) che, in questo 2022, entreranno sempre più nel dibattito quotidiano sul riscaldamento globale del pianeta. Un glossario sul clima che vuole essere un vademecum per comprendere la portata degli impegni che i Governi, le aziende e le organizzazioni stanno sottoscrivendo, e aiutare i consumatori ad orientarsi tra le affermazioni ed i claim di mercato.

Quantis sustainability communications Our Difference Ripple Effect

Che livello di complessità sottende quest’espressione, entrata nell’uso comune?

Simone Pedrazzini, Director Quantis Italia commenta: “Le parole sono importanti, non solo nella vita quotidiana, come ci ricordava un grande regista. Alla crescente attenzione, e mobilitazione della società civile verso la sostenibilità, ha fatto eco negli ultimi anni un crescente e positivo impegno di Paesi, organizzazioni e aziende. Per questo motivo crediamo possa essere interessante e di valore approfondire alcune delle parole chiave che si sono andate diffondendo. Dall’incomprensione nasce la possibilità di fraintendimento e quindi il greenwashing; al contrario gli impegni positivi possono essere valorizzati dalla chiarezza espositiva”.

  1. Antropocene

L’epoca geologica attuale in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, è fortemente condizionato dagli effetti dell’azione umana. Secondo gli studiosi questa nuova epoca geologica potrebbe essere iniziata alla fine del XVIII secolo, con la prima Rivoluzione Industriale: Antropocene, come indica il nome stesso coniato nel 2000 dal chimico e premio Nobel olandese Paul Crutzen, rappresenta quindi l’era dell’uomo, il periodo in cui gli esseri umani hanno un impatto enorme su tutti gli ecosistemi terrestri. Il report IPCC (International Panel on Climate Change) del 9 agosto 2021 ha avvalorato, senza lasciare adito a dubbi, questo impatto: per la prima volta attraverso una scelta lessicale risolutiva, definendo inequivocabile l’influenza delle attività umane sulle concentrazioni aumentate di gas serra nell’atmosfera.

  1. Carbon Footprint

Carbon Footprint, o impronta di carbonio è un parametro che quantifica le emissioni di gas a effetto serra (o greenhouse gases, GHGs) causate da un prodotto, da un servizio, da un’organizzazione, da un evento o da un individuo, espresse in tonnellate di CO2 equivalente.

Nel caso delle aziende, nell’analisi della propria Footprint, è utile ricordare una definizione relativa alla differenza tra lo Scope delle emissioni.

Si definiscono:

  • Scope 1 le emissioni dirette di gas serra da parte delle imprese (emissioni derivanti dalla combustione di caldaie, forni o veicoli di proprietà, ecc)
  • Scope 2: le emissioni indirette di GHG dovute a elettricità utilizzata per le attività “core” del business, sia legate all’attività produttiva che ai servizi
  • Scope 3: tutte le altre emissioni indirette di GHG, conseguenza delle attività dell’azienda, che provengono da fonti non possedute o controllate dall’azienda, in genere come risultato delle attività di fornitori e clienti. In questo scope si trovano ad esempio le emissioni generate alla produzione delle materie prime, la logistica e la fase d’uso e fine vita dei prodotti venduti dall‘azienda.
  1. Climate Change Mitigation

La mitigazione del cambiamento climatico (Climate Change Mitigation) si ottiene limitando o prevenendo le emissioni di gas a effetto serra e potenziando le attività che rimuovono questi gas dall’atmosfera.

  1. Climate Neutrality

Per Climate Neutrality si intende il processo di raggiungimento di un equilibrio tra le emissioni e l’assorbimento di gas climalteranti in atmosfera. Un concetto simile, ma più vasto rispetto a quello di Carbon Neutrality, che faceva riferimento alla sola anidride carbonica, allargando l’ambito a tutti i GHGs. L’Unione Europea, in linea con gli impegni presi negli Accordi di Parigi del 2015 e ribaditi nella recente COP 26 a Glasgow, si è data l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 e l’ha posta al centro del Green Deal.

  1. Climate Strategy

Per Climate Strategy si intende la definizione di obiettivi basati su una quantificazione puntuale delle proprie emissioni, per attivare un percorso virtuoso, e costruire una tabella di marcia per raggiungerli. Una Climate Strategy indica le tappe di un percorso molto concreto verso la decarbonizzazione ed implica la scelta di azioni e innovazioni da adottare; verifiche da effettuare lungo le catene del valore; cambiamento nei prodotti e modelli di business; implementazione della governance a supporto.

Una volta che un’organizzazione abbia compreso le sue diverse emissioni, identificando quelli che in gergo si chiamano “hotspot”, punti caldi dal punto di vista dell’impatto climatico, potrà impostare una strategia di sostenibilità che cerchi di ridurre questi hotspot: in primis attraverso l’abbattimento, e se possibile l’eliminazione, delle sue emissioni di gas a effetto serra.

  1. Net Zero

Una Net-Zero strategy prevede la riduzione attiva delle emissioni nella propria catena del valore e la rimozione unicamente di quella porzione residua di GHG che non possa essere eliminata per raggiungere il bilanciamento tra emissioni e rimozioni entro il 2050. Questo concetto, diversamente dal precedente, coincide con il lessico della “call to action” lanciata da IPCC, già citata, per limitare l’innalzamento delle temperature non oltre 1.5°rispetto all’età pre-industriale. Net zero strategy è un concetto più vasto rispetto a quello di “climate neutral” e che sottende non solo un obiettivo finale (bilancio tra emissioni e rimozioni) ma anche un percorso virtuoso e ben definito per raggiungerlo.

  1. Science Based Target Initiative

Si tratta di una partnership tra Carbon Disclosure Project (CDP), United Nations Global Compact, World Resources Institute (WRI) e World Wide Fund for Nature (WWF) che si ripromette di dare corpo, a livello aziendale, agli impegni presi durante gli Accordi di Parigi per il contenimento dell’innalzamento delle temperature a + 1.5°rispetto all’età pre-industriale.

Aderire a SBTI significa dapprima mappare la situazione corrente delle emissioni legate all’attività aziendale, impegnarsi pubblicamente per garantire che la propria Climate Strategy sia in linea con gli obiettivi scientifici, aderendo ad un framework internazionalmente condiviso, con obiettivi analoghi per aziende paragonabili per dimensione o settori.

Soprattutto con riferimento ai due termini che seguono, cruciali ma di interpretazione molto variabile tra diverse fonti abbiamo scelto di privilegiare il lessico appunto di SBTI, che ha adottato per il 2022 un lessico particolarmente efficace e volutamente polarizzante.

  1. Riduzione

Ridurre significa evitare la generazione, nella fase produttiva di beni, servizi ed energia, di gas ad effetto serra (GHG). In inglese viene definita Abatement (riduzione nella propria value chain).

L’IPCC ha sottolineato la necessità di dare priorità a profonde riduzioni delle emissioni di CO2 (41-58% entro il 2030 e 91-95% entro il 2050) nonché alle riduzioni delle emissioni di metano (CH4) e protossido di azoto (ON2).

  1. Compensazione

Con il termine italiano compensazione facciamo riferimento a due tipologie di intervento: interventi di rimozione (Neutralization in inglese), che hanno l’obbiettivo di rimuovere la CO2 dall’atmosfera e stoccarla in maniera permanente, oppure interventi di “evitamento”, che significa riduzione delle emissioni al di fuori della propria value chain (in inglese Avoidance) ovvero il finanziamento di interventi che aiutino altri a ridurre le loro emissioni.

I progetti di rimboschimento, molto noti e popolari, fanno parte di questa categoria; con compensazione si intende spesso anche fare riferimento all’acquisto di “crediti” di CO2 sul mercato “volontario”,  secondo le definizioni previste dal Protocollo di Kyoto entrato in vigore nel 2005. A diverse categorie di compensazione, come visto sopra, faranno riferimento crediti di diversa qualità.

Altri esempi? Processi di stoccaggio del carbonio, ma anche di ripristino del territorio, di ecosistemi quali torbiere, foreste terrestri o mangrovie. La logica è quella del reintegro di risorse ambientali depauperate con risorse equivalenti: sono molto diffusi anche progetti di creazione di habitat umidi o di salvaguardia della biodiversità, ma richiedono un attento monitoraggio perché il loro effetto positivo potrebbe, ad esempio, dispiegarsi nel medio-lungo periodo, in un orizzonte temporale diverso rispetto al danno ambientale che intendono “pareggiare”.

Lo standard SBTI al proposito sottolinea, rispetto a quelle misure che le aziende adottano per rimuovere il carbonio dall’atmosfera e immagazzinarlo in modo permanente, la necessità di fare ricorso alla compensazione solo per controbilanciare l’impatto di quelle emissioni che rimangono invariate, dopo avere implementato profonde azioni di riduzione (vedi #8).

  1. Greenwashing

Greenwashing è un neologismo composto dalle parole green (ecologico) e whitewash (insabbiare, nascondere qualcosa). Con questo termine si indica l’insieme di strategie di comunicazione e iniziative marketing – attuate da aziende, organizzazioni o istituzioni politiche – finalizzate a costruire un’immagine green, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente, dovuti alle attività o ai prodotti dell’impresa stessa. Il greenwashing può essere volontario o involontario, legato alla mancata comprensione degli impatti reali di una scelta aziendale rispetto alla “big picture”, al quadro di riferimento ben più ampio degli effetti dell’intera attività produttiva sull’ambiente, che si ottiene invece con una precisa mappatura degli “hotspot” ambientali.

10+1.Planetary Boundaries

La definizione di Planetary Boundaries, i “confini planetari”, fa riferimento ad un modello scientifico recente (2009) che prese le mosse dal celebre “The limit of Growth” del Club di Roma (1972) e ne offre una formulazione  più completa  e precisa. I Planetary Boundaries corrispondono a 9 aree operative (operating space) che l’umanità dovrebbe monitorare con regolarità, per continuare ad agire nel perimetro di salvaguardia ambientale e rispetto alle quali sono necessari interventi mirati al fine di perseguire uno sviluppo rispettoso della sostenibilità.

Si tratta cioè di limiti ambientali entro i quali l’umanità può operare in sicurezza, superati i quali possono verificarsi cambiamenti ambientali bruschi e irreversibili con gravi conseguenze. I 9 confini planetari sono:

  1. Cambiamento climatico (limite già superato),
  2. Cambiamento dell’integrità della biosfera – perdita di biodiversità ed estinzione di specie (limite già superato)
  3. Esaurimento stratosferico dell’ozono, assottigliamento dello strato d’ozono
  4. Acidificazione degli oceani
  5. Flussi biogeochimici – cicli del fosforo e dell’azoto (limite già superato)
  6. Cambiamento del sistema-terrestre, uso del suolo (limite già superato)
  7. Disponibilità di acqua dolce (limite già superato)
  8. Carico di aerosol atmosferico (particelle microscopiche nell’atmosfera che influiscono sul clima e sugli organismi viventi)
  9. Nuove entità (sostanze chimiche sintetiche, plastiche, pesticidi, antibiotici e altre molecole farmaceutiche “attive” – particelle con potenziali effetti geofisici e/o biologici indesiderati). Anche quest’ultimo limite è stato superato come evidenziato da un recente paper scientifico (gennaio 2022, “Outside the Safe Operating Space of the Planetary Boundary for Novel Entities”), che per primo ha stimato il superamento del limite consentito in termini di plastica, pesticidi, composti industriali e sostanze chimiche sintetiche.

Il giusto equilibrio tra le conoscenze scientifiche più recenti e il senso del business ci aiutano a supportare la tua azienda nel viaggio verso la sostenibilità.

Simone Pedrazzini
Managing Director
Quantis Italy

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Un consorzio science-based per la trasparenza e la sostenibilità del settore cosmetico

cosmetic product transparency

Siamo entusiasti di annunciare la nostra collaborazione* con i principali marchi di bellezza per co-progettare  un sistema di punteggio volontario e una valutazione dell’impatto ambientale per i prodotti cosmetici.

Lavorando a stretto contatto con i 36 membri del nuovo consorzio EcoBeautyScore, tra cui Henkel, L’Oréal, LVMH, Natura & Co e Unilever, porteremo la nostra esperienza scientifica per sviluppare un metodo comune per misurare gli impatti ambientali a partire dal modello metodologico dell’impronta ambientale dei prodotti UE (PEF) .

Il consorzio è aperto a tutte le aziende cosmetiche e mira a progettare un sistema che consentirà ai consumatori di confrontare i prodotti all’interno della stessa categoria. Tenendo conto, nel punteggio complessivo, dell’intero ciclo di vita del prodotto l’ambizione è informare i consumatori dell’impatto ambientale dei prodotti, soddisfacendo la crescente domanda di maggiore trasparenza e guidando scelte di consumo più sostenibili.

cosmetic product transparency

Noi di Quantis siamo orgogliosi di poter collaborare con il consorzio per garantire robustezza metodologica e scientificità nel percorso di sostenibilità di settore

Una metodologia science-based, ed un approccio pre-competitivo

In qualità di partner tecnico, aiuteremo a sviluppare un approccio solido e scientifico assicurando che gli sforzi per co-costruire la metodologia, volontaria, di valutazione e il sistema di scoring siano guidati e articolati intorno a:

  • Una metodologia comune per misurare gli impatti ambientali lungo tutto il ciclo di vita dei prodotti, a partire dai principi del Product Environmental Footprint dell’Unione Europea, basato sull’analisi del Life Cycle Assessment (LCA) per la quantificazione dell’impronta ambientale;
  • Un database comune rispetto agli impatti ambientali degli ingredienti standard e delle materie prime utilizzate nelle formule e negli imballaggi, nonché durante la fase d’uso del prodotto;
  • Uno strumento comune per valutare l’impatto ambientale dei singoli prodotti, utilizzabile anche da non specialisti;
  • Un sistema di scoring/classificazione armonizzato che consenta alle aziende di informare i consumatori rispetto all’impatto ambientale dei loro prodotti cosmetici.

Metodologia, database, tool e sistema di classificazione verranno certificati da organismi indipendenti.

Per guidare cambiamento e portarlo al livello necessario, le aziende dovranno collaborare con i concorrenti per costruire soluzioni a livello di settore. Quantis non vede l’ora di unire le proprie forze, in qualità di esperto tecnico, a quelle del consorzio per garantire una metodologia di assessment su solida base scientifica e un sistema di scoring, in supporto alla trasformazione sostenibile del settore.

* La nomina di Quantis quale esperto tecnico è stata confermata il 22.02.2022. Per leggere il Comunicato Stampa relativo, in inglese, qui

Contatta Emmanuel Hembert per saperne di più

Emmanuel Hembert
Global Cosmetics + Personal Care Lead
Quantis

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Scoprite eQopack, il tool Quantis per l’ecodesign del packaging!

Discover eQopack, the ecodesign tool changing the face of packaging - Digital Solutions - Quantis

Dare priorità alla sostenibilità nel processo di sviluppo degli imballaggi è diventato più facile! Grazie al tool proprietario eQopack, sviluppato in collaborazione con Kleis Technologies, società di produzioni digitaliQuantis affianca metriche scientifiche affidabili, solide e condivise con competenze digitali di frontiera per fornire alle aziende una soluzione di ecodesign di facile utilizzo.

La sostenibilità del packaging è diventata una priorità, in primis tra i consumatori, che sono sempre più consapevoli delle potenziali conseguenze ambientali legate ai comportamenti d’acquisto quotidiani e le aziende si interrogano in maniera sempre più sofisticata rispetto a come rendere i loro imballaggi più sostenibili. Il processo di scelta facilitato da eQo pack inizia con l’individuazione degli impatti ambientali delle diverse alternative di imballaggio e la valutazione degli stessi durante l’intero ciclo di vita, dalle materie prime al termine. eQopack aiuta aziende e progettisti, anche non specialisti, a valutare gli hotspot e le alternative in pochi clic, in ogni fase del processo di design.

L’adozione dello strumento consente di effettuare analisi caso per caso, così come, attraverso eQopack le aziende possono scegliere di incorporare l’eco-design nei processi standard. 

“eQopack è uno strumento digitale che consente, a nostro parere, una sempre maggiore “democratizzazione” del processo decisionale sulla sostenibilità."

Catherine Zwahlen
Head of Digital Solutions, Quantis

E’ sempre più frequente la riflessione sull’ecodesign in relazione alla circolarità del packaging. Il settore cosmetico ha già lanciato iniziative multi-stakeholder, che hanno consentito lo sviluppo di buone prassi innovative per il packaging sostenibile, ma non tutti i settori avevano avuto accesso agli adatti a soddisfare le loro esigenze in quest’ambito. eQopack consente alle aziende di internalizzare la competenza in materia di eco-design e fornisce una soluzione su misura che parla la lingua dei designer.

Gli utenti possono inserire dataset personalizzati e scegliere gli indicatori più rilevanti per le specificità del business. A seguire, potranno calcolare l’impronta ambientale di qualsiasi soluzione di imballaggio, misurarne le performance ambientali e simulare diversi scenari per ridurre l’impatto. Lo strumento consente di prendere in considerazione 17 diverse categorie ambientali, come il cambiamento climatico e l’uso del suolo e dell’acqua, e 8 indicatori di eco-design, quali riutilizzabilità, contenuto riciclato, rapporto peso confezione / peso prodotto e altri.

La digitalizzazione, attraverso tool come eQopack, sta cambiando le regole del gioco in materia di packaging. Siete pronti ad integrare l’eco-design nei vostri processi e poter così fare con facilità le scelte di imballaggio migliori per il pianeta? Parliamone!

Scoprite il potenziale di innovazione, nella direzione del packaging sostenibile, di eQopack, il tool di eco-design di Quantis!

Catherine Zwahlen
Head of Digital Solutions
Quantis

L’ambizione climatica del settore Fashion in Italia | Webinar con Camera Nazionale della Moda Italiana

Lo slancio attorno all’ambizione climatica sta crescendo nella moda, su scala globale e in Italia. Lo dimostra il fatto che negli ultimi anni, sono un numero crescente di iniziative, come il Fashion Pact, la United Nations Fashion Industry Charter for Climate Action e la Apparel and Footwear Sector Science-Based Target Guidance. Ma non è sempre chiaro quale sia la direzione corretta e gli step da intraprendere nella direzione della sostenibilità ambientale per il settore Fashion.

Per fare crescere la consapevolezza e accompagnare nella trasformazione sostenibile le imprese associate e il sistema moda in Italia, la Camera Nazionale della Moda Italiana, un’organizzazione senza scopo di lucro che regola, coordina e promuove lo sviluppo del fashion in Italia, ha invitato Quantis a condurre un webinar per i membri, in cui esplorare le azioni concrete che i Brand possono compiere per dare forma a strategie climatiche audaci e muovere il business verso la sostenibilità.

“Stabilire obiettivi science-based ha forte impatto trasformativo sul business. Evidenzia leadership; sostiene la crescita mitigando i rischi; favorisce il coinvolgimento interno e l’engagement dei dipendenti; e crea spazio per l'innovazione”

Michela Gioacchini
Quantis Senior Sustainability Consultant

Come strutturare una Climate Strategy efficace?

Prima di entrare in azione, i Brand devono comprendere gli step da intraprendere:

Così come il modello garantisce che i capi siano realizzati secondo le specifiche – con un margine di errore minimo, questi elementi fungeranno da guida per garantire che le strategie climatiche (Climate Strategy) dei brand siano solide e portino ad azioni significative con impatto reale.

 

Da impegni audaci ad azioni guidate dalla scienza

  

Le azioni chiave che consentiranno ai Brand del fashion il successo nella loro Climate journey sono quattro: misurare, comprendere, gestire e comunicare.

La definizione di ogni Climate Strategy inizia con la valutazione degli hotspot e la costruzione del business case per una presa di decisione basata sulla scienza (science-based). Una volta assicurato l’engagement della leadership, il percorso implica stabilire obiettivi, costruirei una tabella di marcia per raggiungerli, coinvolgere i team operativi e, infine, implementare il piano d’azione, senza dimenticare il monitoraggio continuo.

Durante tutto il processo, vorrai comunicare con gli stakeholder interni ed esterni per creare fiducia, stimolare l’adesione e accelerare il percorso verso il cambiamento positivo.

Ti chiedi in quale fase della Climate Journey (percorso ambizioso, verso obiettivi di emissioni in linea con gli accordi di Parigi) si trovi la tua azienda? Ecco alcune domande chiave per scoprirlo:

  • Misurare: Qual è il tuo consumo energetico? Conosci la tua Carbon Footprint Scope 3?
  • Comprendere: La tua azienda ha familiarità con gli obiettivi science-based? Come di posiziona, qual è il benchmark rispetto al mercato di riferimento?
  • Gestire: Hai impostato Science Based target? Hai già messo in atto un “action plan”?
  • Comunicare: Qual è la strategia di comunicazione della sostenibilità ambientale in atto? Chi sono i decisori e qual è il piano di comunicazione interna?

Hai bisogno di maggiori informazioni? Contattaci per definire dove si trova la tua azienda nel percorso di sostenibilità ambientale e nella Climate Journey e definire i tuoi prossimi passi nella direzione di una Climate Strategy concreta e science-based.

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Simone Pedrazzini
Director
Quantis Italy